Alla corte di Kiev tre possenti e indomiti cavalieri
Il'ia Ivanovic
Il'ja Ivanovič
Nel villaggio di Karačarovo, presso la grande città di Murom, nacque un bambino, ed ebbe nome Il'ja Ivanovič.
Il padre, Ivan Timofeevič, era un contadino che lavorava la terra dall'alba al tramonto. Egli avrebbe davvero avuto bisogno di un paio di braccia che l'aiutassero nel suo lavoro, ma il povero Il'ja non poteva aiutarlo, essendo paralitico. Non poteva camminare, né disporre delle mani, né con i piedi camminare.
Ed era duro per i genitori assistere questo povero ragazzo che trascorreva la sua fanciullezza su un giaciglio all'interno dell'izba, intristito per essere di peso alla sua famiglia, con il rimpianto di un'intera vita di occasioni perdute. E, con l'arrivo dell'estate, quando il padre e la cara madre si recavano a dissodare i campi, il giovane rimaneva solo in casa, immobile in cima alla stufa.
Aveva Il'ja trent'anni, quando tre vecchi pellegrini bussarono alla porta dell'izba: — Àlzati, Il'ja, Il'ja Muromec. Dacci da bere, ché abbiamo fame. Dacci da mangiare a sazietà!
Non vi era nessuno in casa, e rispose Il'ja dal suo giaciglio: — Vi darei da mangiare a sazietà, vi darei da bere fino a inebriarvi. Ma per trent'anni di lunga vita non seppi camminare sui miei piedi e non seppi disporre delle mani.
E dissero allora i pellegrini: — Àlzati, Il'ja, Il'ja Muromec. Àlzati, dà da bere e dà da mangiare, ché abbiamo sete.
Rispose Il'ja: — Lieto mi alzerei sui bianchi piedi, ma io ho piedi, ho anche mani, eppure i piedi non mi sostengono, eppure le mani non mi si muovono! La terza volta dissero i vecchi pellegrini: — Àlzati, ormai, Il'ja, Il'ja Muromec. Con i tuoi piedi tu sai camminare, delle tue mani tu sai disporre!
E prodigiosamente Il'ja si alzò sulle bianche gambe e cominciò a camminare, e le travi scricchiolarono e il pavimento si piegò sotto i suoi pesanti passi. Subito Il'ja levò gli occhi verso l'icona. — Oh, gloria al Signore! Iddio mi ha concesso di camminare, ha infuso forza nelle mie mani, il Signore!
E corse Il'ja Ivanovič ad aprire la porta ai vecchi pellegrini. Scese poi di corsa nelle profonde cantine e portò su una coppa piena.
— Bevete, dunque, o vecchi pellegrini.
Ed essi bevvero, i santi pellegrini. — E ora, o Il'ja, scendi di nuovo nelle cantine, porta su una coppa colma fino all'orlo e bevi anche tu alla tua salute! —
Il'ja fece come gli era stato detto e bevve. E d'incanto sentì sorgere in sé una forza smisurata.
— Che cosa senti dentro di te, Il'ja?
— Sento una grande forza in tutte le membra. Se sull'umida terra ci fosse un anellino, rovescerei la terra sul fianco!
Dissero allora i vecchi: — O Il'ja, scendi ancora una volta nel famoso, profondo sotterraneo, porta un'altra coppa colma fino all'orlo e bevi ancora!
Il'ja ubbidì e bevve una seconda volta.
— Che cosa senti dentro di te, Il'ja?
— Ora la forza in me è calata fino alla metà.
Allora i vecchi pellegrini lo benedissero e lo salutarono con queste parole: — Vivi, Il'ja, per essere guerriero! In terra morte non t'è destinata, in lotta morte non t'è destinata!
E benedissero Il'ja Muromec e si accomiatarono da lui.
Subito, Il'ja corse verso i campi e i verdi prati, dove erano i suoi amati genitori, e giunse al famoso fiume Nepra. — Iddio vi aiuti, cara madre! Iddio ti aiuti, caro padre!
E il padre e la cara madre si stupirono, nel vedere il figlio arrivare di corsa sulle sue bianche gambe, si stupirono e furono costernati. — Aj, tu, figlio, figlio diletto! Gloria, gloria al Signore! Di camminare t'ha concesso Iddio, il Signore ti ha infuso forza nelle mani!
E per provare la sua energia, Il'ja sradicò una quercia con tutte le radici dalla madre umida terra, e la gettò nelle acque del Nepra. Si accanì poi sulle altre querce: le strappava con la sola forza delle braccia e le lanciava nel fiume, tanto da sbarrarne le correnti.
Disse allora il padre: — Aj, tu, figlio, figlio diletto! Tu non ci darai cibo, non ci aiuterai nel nostro lavoro. Andrai sicuramente in campo aperto, andrai a combattere e non avrai rivali.
E disse la cara madre: — Aj, tu, figlio, figlio diletto! Iddio ti ha dato una grande forza. Ma vedi ugualmente di condurre la tua vita con grande umiltà, e tieni a freno il tuo fervido cuore!
Come furono tornati al villaggio, Il'ja si rivolse ai suoi genitori:
— Tu ormai, padre, e anche tu, cara madre, datemi la vostra benedizione. Io intendo partire per la grande città di Kiev, dal principe Vladimir, il piccolo sole, per mettere la mia forza al suo servizio.
O figlio, figlio diletto, — si raccomandò la cara madre, — recati pure a Kiev, la famosa città. Ma non insanguinare la tua spada, non rendere orfani i piccoli bimbi, non oltraggiare le giovani donne. Abbi pietà per il contadino, non avere pietà per il tataro pagano.
E allora Il'ja condusse fuori di primo mattino il suo cavallo grigio. — Ora, mio Sivko, bianca criniera, ruzzola un po' nella rugiada del mattino, affinché il pelo si ricambi. Forza aggiungerai alla mia forza. Da oggi galopperai nelle aperte ampie steppe, salterai oltre le mura delle città e servirai il prode Il'ja, Il'ja Ivanovič di Murom!
Nel villaggio di Karačarovo, presso la grande città di Murom, nacque un bambino, ed ebbe nome Il'ja Ivanovič.
Il padre, Ivan Timofeevič, era un contadino che lavorava la terra dall'alba al tramonto. Egli avrebbe davvero avuto bisogno di un paio di braccia che l'aiutassero nel suo lavoro, ma il povero Il'ja non poteva aiutarlo, essendo paralitico. Non poteva camminare, né disporre delle mani, né con i piedi camminare.
Ed era duro per i genitori assistere questo povero ragazzo che trascorreva la sua fanciullezza su un giaciglio all'interno dell'izba, intristito per essere di peso alla sua famiglia, con il rimpianto di un'intera vita di occasioni perdute. E, con l'arrivo dell'estate, quando il padre e la cara madre si recavano a dissodare i campi, il giovane rimaneva solo in casa, immobile in cima alla stufa.
Aveva Il'ja trent'anni, quando tre vecchi pellegrini bussarono alla porta dell'izba: — Àlzati, Il'ja, Il'ja Muromec. Dacci da bere, ché abbiamo fame. Dacci da mangiare a sazietà!
Non vi era nessuno in casa, e rispose Il'ja dal suo giaciglio: — Vi darei da mangiare a sazietà, vi darei da bere fino a inebriarvi. Ma per trent'anni di lunga vita non seppi camminare sui miei piedi e non seppi disporre delle mani.
E dissero allora i pellegrini: — Àlzati, Il'ja, Il'ja Muromec. Àlzati, dà da bere e dà da mangiare, ché abbiamo sete.
Rispose Il'ja: — Lieto mi alzerei sui bianchi piedi, ma io ho piedi, ho anche mani, eppure i piedi non mi sostengono, eppure le mani non mi si muovono! La terza volta dissero i vecchi pellegrini: — Àlzati, ormai, Il'ja, Il'ja Muromec. Con i tuoi piedi tu sai camminare, delle tue mani tu sai disporre!
E prodigiosamente Il'ja si alzò sulle bianche gambe e cominciò a camminare, e le travi scricchiolarono e il pavimento si piegò sotto i suoi pesanti passi. Subito Il'ja levò gli occhi verso l'icona. — Oh, gloria al Signore! Iddio mi ha concesso di camminare, ha infuso forza nelle mie mani, il Signore!
E corse Il'ja Ivanovič ad aprire la porta ai vecchi pellegrini. Scese poi di corsa nelle profonde cantine e portò su una coppa piena.
— Bevete, dunque, o vecchi pellegrini.
Ed essi bevvero, i santi pellegrini. — E ora, o Il'ja, scendi di nuovo nelle cantine, porta su una coppa colma fino all'orlo e bevi anche tu alla tua salute! —
Il'ja fece come gli era stato detto e bevve. E d'incanto sentì sorgere in sé una forza smisurata.
— Che cosa senti dentro di te, Il'ja?
— Sento una grande forza in tutte le membra. Se sull'umida terra ci fosse un anellino, rovescerei la terra sul fianco!
Dissero allora i vecchi: — O Il'ja, scendi ancora una volta nel famoso, profondo sotterraneo, porta un'altra coppa colma fino all'orlo e bevi ancora!
Il'ja ubbidì e bevve una seconda volta.
— Che cosa senti dentro di te, Il'ja?
— Ora la forza in me è calata fino alla metà.
Allora i vecchi pellegrini lo benedissero e lo salutarono con queste parole: — Vivi, Il'ja, per essere guerriero! In terra morte non t'è destinata, in lotta morte non t'è destinata!
E benedissero Il'ja Muromec e si accomiatarono da lui.
Subito, Il'ja corse verso i campi e i verdi prati, dove erano i suoi amati genitori, e giunse al famoso fiume Nepra. — Iddio vi aiuti, cara madre! Iddio ti aiuti, caro padre!
E il padre e la cara madre si stupirono, nel vedere il figlio arrivare di corsa sulle sue bianche gambe, si stupirono e furono costernati. — Aj, tu, figlio, figlio diletto! Gloria, gloria al Signore! Di camminare t'ha concesso Iddio, il Signore ti ha infuso forza nelle mani!
E per provare la sua energia, Il'ja sradicò una quercia con tutte le radici dalla madre umida terra, e la gettò nelle acque del Nepra. Si accanì poi sulle altre querce: le strappava con la sola forza delle braccia e le lanciava nel fiume, tanto da sbarrarne le correnti.
Disse allora il padre: — Aj, tu, figlio, figlio diletto! Tu non ci darai cibo, non ci aiuterai nel nostro lavoro. Andrai sicuramente in campo aperto, andrai a combattere e non avrai rivali.
E disse la cara madre: — Aj, tu, figlio, figlio diletto! Iddio ti ha dato una grande forza. Ma vedi ugualmente di condurre la tua vita con grande umiltà, e tieni a freno il tuo fervido cuore!
Come furono tornati al villaggio, Il'ja si rivolse ai suoi genitori:
— Tu ormai, padre, e anche tu, cara madre, datemi la vostra benedizione. Io intendo partire per la grande città di Kiev, dal principe Vladimir, il piccolo sole, per mettere la mia forza al suo servizio.
O figlio, figlio diletto, — si raccomandò la cara madre, — recati pure a Kiev, la famosa città. Ma non insanguinare la tua spada, non rendere orfani i piccoli bimbi, non oltraggiare le giovani donne. Abbi pietà per il contadino, non avere pietà per il tataro pagano.
E allora Il'ja condusse fuori di primo mattino il suo cavallo grigio. — Ora, mio Sivko, bianca criniera, ruzzola un po' nella rugiada del mattino, affinché il pelo si ricambi. Forza aggiungerai alla mia forza. Da oggi galopperai nelle aperte ampie steppe, salterai oltre le mura delle città e servirai il prode Il'ja, Il'ja Ivanovič di Murom!
Svjatogor
Ai tempi del gran principe Vladimir, il vecchio Svjatogor,il maestoso titano di un tempo antico si muoveva ancora per i confini della Santa Russia, nonostante la fede ortodossa fosse ormai giunta dalla Grecia e gli antichi dèi pagani non avessero più il potere di un tempo.
Relitto di un tempo scomparso, Svjatogor guidava il suo cavallo per l'aperta ampia steppa. Così gigantesca era la sua corporatura che era costretto addirittura camminare sulle cime dei monti per evitare che la terra sprofondasse sotto il suo stesso peso.
Ma nonostante il suo tempo fosse ormai trascorso, Svjatogor ancora traboccava di orgoglio per la propria potenza, che sentiva diffondersi per le membra e i tendini come argento vivo. — Se la terra avesse un anello, — si vantava, — potrei rovesciarla su un fianco!
Mentre così andava per l'aperta ampia steppa, vide al suolo abbandonata la piccola bisaccia perduta da un pellegrino. La toccò con la punta della lancia ma non gli riuscì a spostarla. Allora si chinò dal cavallo per afferrarla, ma la bisaccia non si staccò da terra.
— Molti anni ho viaggiato per il mondo ma non ho mai trovato un simile portento — disse Svjatogor. — Una piccola bisaccia che non si muove dal posto dove si trova!
Allora Svjatogor scese maestosamente da cavallo, si chinò e afferrò la bisaccia con entrambe le mani e tirò con tutte le sue forze. La bisaccia si sollevò fino all'altezza dei suoi ginocchi... ma fino ai ginocchi era sprofondato Svjatogor nella nera terra. Sul pallido viso del gigante non scorsero lacrime, ma sangue. Lì Svjatogor s'incastrò, l'orgoglioso titano dei tempi andati, e, dicono alcuni, dovette restarvi finché giunse la sua morte. Ma altri narrano in altro modo la storia della sua fine.
Relitto di un tempo scomparso, Svjatogor guidava il suo cavallo per l'aperta ampia steppa. Così gigantesca era la sua corporatura che era costretto addirittura camminare sulle cime dei monti per evitare che la terra sprofondasse sotto il suo stesso peso.
Ma nonostante il suo tempo fosse ormai trascorso, Svjatogor ancora traboccava di orgoglio per la propria potenza, che sentiva diffondersi per le membra e i tendini come argento vivo. — Se la terra avesse un anello, — si vantava, — potrei rovesciarla su un fianco!
Mentre così andava per l'aperta ampia steppa, vide al suolo abbandonata la piccola bisaccia perduta da un pellegrino. La toccò con la punta della lancia ma non gli riuscì a spostarla. Allora si chinò dal cavallo per afferrarla, ma la bisaccia non si staccò da terra.
— Molti anni ho viaggiato per il mondo ma non ho mai trovato un simile portento — disse Svjatogor. — Una piccola bisaccia che non si muove dal posto dove si trova!
Allora Svjatogor scese maestosamente da cavallo, si chinò e afferrò la bisaccia con entrambe le mani e tirò con tutte le sue forze. La bisaccia si sollevò fino all'altezza dei suoi ginocchi... ma fino ai ginocchi era sprofondato Svjatogor nella nera terra. Sul pallido viso del gigante non scorsero lacrime, ma sangue. Lì Svjatogor s'incastrò, l'orgoglioso titano dei tempi andati, e, dicono alcuni, dovette restarvi finché giunse la sua morte. Ma altri narrano in altro modo la storia della sua fine.
Alëša Popovič
Dalla grande città di Rostov partirono un giorno, come due splendenti falchi, partirono due possenti bogatyri e cavalcarono per l'aperta ampia steppa. Il primo aveva nome Alëša, ma poiché era il figlio del vecchio pope Leontij della cattedrale della città, tutti lo chiamavano Alëša Popovič. L'altro era il suo giovane amico Ekim Ivanovič.
Cavalcarono insieme per l'aperta ampia steppa finché giunsero in un luogo dove tre ampie strade si diramavano e, tra quelle strade, si levava una grossa pietra iscritta.
— Ehi, tu, fratello Ekim Ivanovič, tu che sei esperto di lettere! — disse Alëša. — Guarda l'iscrizione sulla pietra, guarda e dimmi quel che vi sta scritto.
E balzò Ekim giù dal bravo cavallo e studiò l'iscrizione sulla pietra. — Dice solo che la prima strada conduce a Murom, la seconda a Černigov, la terza alla grande città di Kiev, dove risiede il gran principe Vladimir, piccolo sole.
— Meglio sarà per noi, allora, andare nella grande città di Kiev, dove risiede il gran principe Vladimir, piccolo sole — concluse il giovane Alëša.
Si accamparono lunga la strada, nei pressi del fiume Safat, e là rizzarono le tende. Il mattino successivo si destò Alëša assai presto, di buon mattino, si rivolse verso oriente e pregò Iddio. Mentre sellavano i bravi cavalli, pronti per partire, a loro si appressò un pellegrino.
— Ehi, voi prodi e bravi giovani! — chiamò. — Vengo or ora dall'aperta ampia steppa, dove ho appena incontrato Tugarin, il figlio del serpente! È alto più di un uomo, ha spalle larghe e poderose, il suo cavallo è come una belva feroce e dalla sua bocca divampano fiamme!— Presto, viandante! — esclamò Alëša. — Dammi i tuoi abiti, e scambiali con i miei!
E Alëša si rivestì così degli abiti del viandante. Si mise il suo ricco mantello, il berretto greco sul capo, prese il suo bastone da viaggio, solido e pesante. Quindi si pose di traverso sul fiume Safat, in attesa che Tugarin si mostrasse.
Tugarin comparve presto nell'aperta ampia steppa. La sua cintola aveva il diametro di una quercia, gli occhi gli distavano l'uno dall'altro un tiro di freccia, le orecchie erano lunghe due buoni palmi. Non appena vide da lontano Alëša, Tugarin emise un grido così forte che l'intero querceto ne tremò.
— Ehi tu, viandante! Hai visto per caso dei bogatyri russi, qua intorno? Con la lancia li infilzerò, li infilzerò con la lancia e nel fuoco li brucerò!
Rispose allora Alëša: — Ehi, Tugarin Zmeevič, figlio del serpente! Non sento quello che dici, fatti più vicino!
E s'appressò Tugarin Zmeevič e Alëša lo colpì col bastone da viaggio, con tanta forza che gli sfondò il cranio. Piombò Tugarin sull'umida terra. Gli balzò Alëša sul nero petto e trasse il coltello.
— Ehi tu, viandante pellegrino! Ti riconosco adesso, sei il valente Alëša Popovič della grande città di Rostov! — esclamò Tugarin. — Non uccidermi, ti supplico. Anzi, affratelliamoci, io e te!
Alëša non prestò fede al nemico e gli mozzò il capo impetuoso.
E restituiti gli abiti al viandante e indossati di nuovo i propri, Alëša Popovič ripartì per la grande città di Kiev, seguito dal fedele Ekim Ivanovič.
Cavalcarono insieme per l'aperta ampia steppa finché giunsero in un luogo dove tre ampie strade si diramavano e, tra quelle strade, si levava una grossa pietra iscritta.
— Ehi, tu, fratello Ekim Ivanovič, tu che sei esperto di lettere! — disse Alëša. — Guarda l'iscrizione sulla pietra, guarda e dimmi quel che vi sta scritto.
E balzò Ekim giù dal bravo cavallo e studiò l'iscrizione sulla pietra. — Dice solo che la prima strada conduce a Murom, la seconda a Černigov, la terza alla grande città di Kiev, dove risiede il gran principe Vladimir, piccolo sole.
— Meglio sarà per noi, allora, andare nella grande città di Kiev, dove risiede il gran principe Vladimir, piccolo sole — concluse il giovane Alëša.
Si accamparono lunga la strada, nei pressi del fiume Safat, e là rizzarono le tende. Il mattino successivo si destò Alëša assai presto, di buon mattino, si rivolse verso oriente e pregò Iddio. Mentre sellavano i bravi cavalli, pronti per partire, a loro si appressò un pellegrino.
— Ehi, voi prodi e bravi giovani! — chiamò. — Vengo or ora dall'aperta ampia steppa, dove ho appena incontrato Tugarin, il figlio del serpente! È alto più di un uomo, ha spalle larghe e poderose, il suo cavallo è come una belva feroce e dalla sua bocca divampano fiamme!— Presto, viandante! — esclamò Alëša. — Dammi i tuoi abiti, e scambiali con i miei!
E Alëša si rivestì così degli abiti del viandante. Si mise il suo ricco mantello, il berretto greco sul capo, prese il suo bastone da viaggio, solido e pesante. Quindi si pose di traverso sul fiume Safat, in attesa che Tugarin si mostrasse.
Tugarin comparve presto nell'aperta ampia steppa. La sua cintola aveva il diametro di una quercia, gli occhi gli distavano l'uno dall'altro un tiro di freccia, le orecchie erano lunghe due buoni palmi. Non appena vide da lontano Alëša, Tugarin emise un grido così forte che l'intero querceto ne tremò.
— Ehi tu, viandante! Hai visto per caso dei bogatyri russi, qua intorno? Con la lancia li infilzerò, li infilzerò con la lancia e nel fuoco li brucerò!
Rispose allora Alëša: — Ehi, Tugarin Zmeevič, figlio del serpente! Non sento quello che dici, fatti più vicino!
E s'appressò Tugarin Zmeevič e Alëša lo colpì col bastone da viaggio, con tanta forza che gli sfondò il cranio. Piombò Tugarin sull'umida terra. Gli balzò Alëša sul nero petto e trasse il coltello.
— Ehi tu, viandante pellegrino! Ti riconosco adesso, sei il valente Alëša Popovič della grande città di Rostov! — esclamò Tugarin. — Non uccidermi, ti supplico. Anzi, affratelliamoci, io e te!
Alëša non prestò fede al nemico e gli mozzò il capo impetuoso.
E restituiti gli abiti al viandante e indossati di nuovo i propri, Alëša Popovič ripartì per la grande città di Kiev, seguito dal fedele Ekim Ivanovič.