Un cammino per conoscere altri mondi
Venerdi 21 marzo.
Giorno di ferie. Ne approfitto per andare a studiare in biblioteca, come per tornare ai vecchi tempi. L’esame è vicino.
Mi raggiunge Mà “Guarda qui” mi dice allungandomi un piccolo foglietto giallo.
“CENA AL BUIO” vedo scritto in cima, con tutte le indicazioni a seguire, giorno, orario, menu…….
Che bello! Da quando è nato il mio percorso di approfondimento su varie diversità (chiamiamolo così, per semplicità) questo era uno tra i desideri rimasti in sospeso: perché ne avevo sentito parlare e l’idea di vivere, anche se per poche ore, da non vedente mi incuriosiva tantissimo. (Ho saputo che a Vienna c’è anche un museo che organizza eventi di questo tipo, aperti ai bambini coi genitori).
“Che giorno è?” “Venerdi sera. Il 28”.
E’ purtroppo proprio la sera prima del mio esame, ma è un’occasione da non perdere, chissà quando mi ricapita!
Così la sera stessa mando una decina di sms per avvisare alcuni amici e il giorno dopo prenoto, per me e mia mamma. Il titolare dell’osteria è felicissimo quando gli dico “sono molto interessata”.
Passano i giorni e la mia ansia sale. Riuscirò a vivermi bene la serata senza il pensiero dell’esame alle 8 del mattino dopo?
Fino all’ultimo il dubbio rimane, perché il cervello si è chiuso, non riesco più a studiare, sono troppo stanca, dopo 5 mesi di corso ho troppa voglia di finire.
Mà mi confessa d’avermi proposto la serata pensando che mi potesse aiutare in questo studio tutto nuovo in cui mi sono improvvisamente immersa: la lingua dei segni. “Ma mamma, è una cena al buio, con i ciechi, cosa c’entrano i sordi?!”. Viene proprio da sorridere, i sordi comunicano con i segni, al buio sarebbe un po’ difficile. Ma anche questo fa riflettere un bel po’.
Arriva il venerdì, si aggiunge alla combriccola anche mia sorella, gli amici hanno disertato, non sono poi in tanti a volersi mettere in gioco.
Sono tranquilla, c’è scritto che i camerieri saranno non vedenti perciò sono sicura che ci aiuteranno. E infatti è
così, ci accompagnano in sala uno ad uno e la prima forte sensazione è quella di essere protetti, fortemente protetti.
La sala sembra enorme, le voci sono tante, si intrecciano e rimbombano. Mi accorgo che istintivamente i miei occhi cercano le pochissime fonti di luce esistenti, minuscoli spifferi di luce che si intrufolano tra i teli che oscurano la stanza da tutti i lati. Eppure non riesco a vedere nemmeno la sagoma di mia mamma che siede di fronte a me. Il buio è nonostante tutto profondo.
I primi momenti se li prende l’imbarazzo. Non si sa che fare.Tocco le posate, il bicchiere, il bordo del tavolo per capire dove sto, registro le mie coordinate. “Sono qui”, io e mia mamma ci diamo sicurezza allungando la mano fino a trovarci.
Mia sorella è nel tavolo di fronte, ma sembra tutt’altro che abbandonata e spaurita. Si sente la sua voce che chiacchiera coi suoi vicini.Passa un po’ di tempo prima di presentarci e cominciare a conoscere gli altri ragazzi del nostro tavolo; il passaggio della caraffa di acqua scioglie il ghiaccio: poco a poco gli interessi comuni ci abbracciano e l’attesa tra una portata e l’altra non sembra più così lunga. Hanno già portato l’antipasto.
Ritocco le posate che non si sono spostate di un millimetro ma alla fine non le uso: prosciutto, mortadella, del resto forse li avrei mangiati con le mani anche alla luce, tra le quattro mura di casa mia.
Qualcuno dice “c’è anche un salume ferrarese” ma io non lo riconosco, o almeno, non faccio in tempo perché svuoto il piatto prima ancora che arrivi il pane.
E’ per questo forse che ho tanta sete. La caraffa è di fronte a me, sempre se qualcuno non l’ha spostata…..
Non so perché ma di una cosa ero convinta: che ci avrebbero versato loro da bere.
Macchè!. Mi sento proprio allo sbaraglio, ma forse è giusto così. Mi accingo nell’impresa che fin dal primo momento ho considerato la più ardua. Sento il rumore dell’acqua, il bicchiere che aumenta un pochino il suo peso nella mia mano sinistra.
Grande! Ce l’ho fatta. Appoggio senza danni la caraffa e finalmente mi disseto. Ah! Ma? Tutto qui? Con tutta la mia attenzione e la mia paura ne ho versate solo due dita, mi bagno giusto le labbra e la sete vera rimane.
Ma qualcuno ha già chiesto il vino e decido di aspettare. Rosso, rosso, al nostro tavolo siamo tutti d’accordo.
Il chiasso aumenta sempre più, quasi tutti urliamo, mentre sento i camerieri andare avanti e indietro per la sala. La loro sicurezza negli spostamenti è impressionante. Sono veloci e delicati allo stesso tempo. Non un gesto fuori luogo, coordinate
precise, riconoscimenti immediati e spontanei.
Sento una persona che passa silenziosa dietro a me. Ne approfitto: “Posso chiederle aiuto?” - “Si” - “Avrei bisogno di andare in bagno”. Un attimo di silenzio. Con qualche difficoltà sento che si avvicina al mio orecchio “Sono quello del tuo tavolo, sto facendo un giro per fare uno scherzo ai miei amici”. Non ho parole.
Qualcuno che si approfitta della situazione per fare il cretino c’è sempre. Ma purtroppo la serata riserva anche peggio in tal proposito.
“Spegnete i cellulari, toglietevi gli orologi o qualunque altra fonte di luce, mi raccomando” ci hanno ripetuto più volte prima di entrare. Eccolo lì, nel tavolo dietro al nostro, l’imbecille che accende il cellulare inondando la stanza di un filo di luce che spezza in mille frantumi il buio e l’atmosfera. Solo pochi secondi perché l’ ”OHHH” generale di un po’ tutti è una minaccia troppo grande e lui fa bene ad avere paura d’essere riconosciuto. Ma quel breve istante è bastato ad irritarmi. Mi chiedo perché anche in queste occasioni si devono aggregare personaggi del genere che a quanto pare non hanno capito proprio NIENTE (diciamo che sospendo il giudizio perché ce ne sarebbe da dire…).Questa mancanza di rispetto mi scuote ma mi accorgo che gli organizzatori sono tranquilli, chissà quante ne hanno passate di situazioni così. Qualcuno di loro ci invita a non farci caso, felici forse di avere tra di noi persone davvero interessate.Anche Mamma calma la mia stizza, dicendo di lasciar perdere, tamponando il mio “sono degli idioti”, così decido di versarmi finalmente il vino.
Stavolta mi faccio furba: infilo il dito indice dentro al bicchiere, spingendo forte i polpastrelli delle altre dita della mano sinistra, così poco abituate a fare presa.
L’equilibrio è precario ma almeno così saprò quando il vino arriverà in cima: e infatti è proprio così, me ne accorgo senza dubbi, il vino arriva sulla punta del dito, sulla nocca, sulla mano e si rovescia irruente sul mio piatto. Un decimo di secondo.
Più che il dito indice sinistro era il gomito destro da regolare! Nessuno mi vede ma io mi sento cretina uguale. Per fortuna mi sono vestita apposta di nero, pensando al reale rischio di rovesciarmi addosso qualcosa.
A parte la mano in realtà sono asciutta, l’ho scampata bella: ho fatto poco danno e il vino è proprio buono.
Acquisto sicurezza. Mia sorella dal tavolo di fronte mi dice “sono qui” col suo bicchiere di vino bianco. In un istante realizzo che in quel momento nessuno passa e mi fiondo verso di lei. Le gambe rispondono ancora, le braccia allungate in avanti alla mosca cieca, ma non proprio dritte dritte ma rivolte un po’ più giù, verso il basso, per cercare il tavolo ed evitare un dito nell’occhio a mia sorella.La sua voce sembra lontanissima e invece in poco più di mezzo passo sono al suo tavolo, bevo un sorso al volo dal suo bicchiere “umh buono”, e riconquisto zitta zitta la mia sedia, con un leggero batticuore e la sensazione d’aver attraversato un’autostrada rimanendo straordinariamente indenne.
La compagnia aumenta, si aggiungono dei ragazzi nel tavolo dietro a mia mamma, aumentando la confusione a livelli stratosferici.
Passa il primo. Le posate sono ancora al loro posto. Cannelloni e lasagne che litigano con la mia forchetta. Sarebbe interessate assistere all’inseguimento tra forchetta, dito indice impiastricciato, pasta srotolata e ripieno di carne che si sta svolgendo sotto i miei occhi.
Al nostro tavolo rianimiamo un po’ la conversazione. I commenti sui segni zodiacali e sulle origini (3 bolognesi, 2 toscane, 1 olandese) vengono interrotte dalle domande dei nostri ospiti.
“Avete riconosciuto qualche cosa?” , “Riuscite a mangiare con le posate?” Ci rassicurano che qualche volta anche a loro
capita di aiutarsi con le mani; la differenza è che però a noi non ci vede nessuno, mentre loro vivono in un modo di vedenti. Si avvicina un cameriere per sparecchiare e finalmente slancio la mia domanda più grande: ”mi scusi, ma voi utilizzate la parola “non vedente” o “cieco”?”. Mi risponde che per lui che non c’è differenza ma non mi dà molta corda. In realtà per tutta la serata ho sentito utilizzare sempre e solo “non vedente” e il dubbio mi rimane. Quando ho iniziato a conoscere il mondo dei sordi usavo sempre l’espressione “non udente” e la mia amica interprete mi correggeva sempre: “sordi”! Durante il corso di' Lingua dei segni' effettivamente ho visto e sentito usare sempre e solo i termini “udente” e “sordo” o “sordomuto”, che c’è pure nel nome dell’Ente Nazionale.“Non vedente” , “non udente” , ….. effettivamente è come indicare una persona come un “non” qualcosa.
Come se io fossi una “non mora”, “non inglese”, “non dottore” …….Sarà? Ciò che importa poi non sono le parole.
Intanto sono qui immersa nel buio, con mia mamma che ancora si chiede e ci chiede se sia meglio tenere gli occhi chiusi o aperti.
Io ascolto. Ci provo. Ascolto il mio corpo per cercare di sentire, nonostante il chiasso sempre più forte: i nuovi arrivati sono del tipo “accendo il cellulare” e stavolta vengono ripresi anche da un cameriere perché stanno esagerando.
La mia scappata in bagno è velocissima. L’impatto forte con la luce mi fa percepire il buio così morbido e accogliente che torno subito al mio posto, non senza notare però di sfuggita i pomellini rossi sulle mie guance.
E’ il momento del secondo ma mi abbandono ai pensieri e mangio meno. Ascolto gli altri e mi rilasso, tanto che giro e rigiro il mio anello, ci gioco, lo tolgo, lo rimetto, lo tolgo, lo rimetto, cambio mano, cambio dito, lo tolgo e….. eccolo là, mi cade! Mi sembra quasi di vederlo: tin tin tin…..scivola giù verso il tavolo dietro al mio.“Non ci posso credere” voglio ridere coi miei compagni di tavolata che si preoccupano più di me. “Non importa, non è di valore….”. Però ci provo lo stesso. Zitta zitta scivolo dalla sedia e mi metto a gattoni tra i due tavoli. Se qualcuno si sposta indietro in questo momento facciamo un disastro. Ma quasi tutti stanno fermi al loro posto, la percentuale di gente in gamba qui dentro è fortunatamente alta.
Allungo la mano, tasto qua e là coprendo una piccola semicirconferenza, “Tanto ora lo trovo” mi convinco, sapendo allo stesso tempo che il 90% delle volte che mi succede a casa, alla luce, ritrovo ciò che ho perso solo dopo 1 settimana.
I tempi si allungano e l’attesa diventa pesante. Ecco che penso all’esame, al vino che ho bevuto, al dolce che deve arrivare.
Chissà che ora è? Qualcuno viene invitato a provare a gironzolare nella stanza accompagnato da qualcuno di loro. Chiamo mia sorella una volta, due volte, alzo la voce, la richiamo. Solo dopo realizzo che la pausa sigaretta è tra le sue priorità.
I dolci arrivano, insieme ad alcuni piccoli oggetti che raffigurano qualcosa. “Avete indovinato?” ma l’impresa è ardua, sembrano dei portachiavi (il mio provo pure a morderlo ma ho subito la certezza che non si tratta di un biscotto).
Ci avvisano che il ritorno alla luce sarà graduale, toglieranno i tendoni che chiudono le fessure poco a poco e solo dopo accenderanno le luci.
Ora sì comincio a raccogliere le sensazioni per poterle confrontare con quanto sto per vedere.
Le dimensioni della stanza sono completamente all’opposto da quello che mi sarei aspettata. Le distanze, la grandezza, le dimensioni. Così poco abituati ad ascoltare, non siamo in grado di percepire i tragitti della nostra voce, i rimbalzi, le traiettorie, le sfumature.Un silenzio fatto di bisbigli solo tra chi si conosce cambia totalmente l’atmosfera.
Tra vicini di tavolo si fatica a salutarsi. E’ davvero strano. Mi sarei aspettata gridolini di sorpresa tra tutti noi “Ma dai, sei tu quello con cui parlavo prima?”, “Ma ciao, piacere!” , ... e invece no, siamo tutti imbarazzati.
Mi rendo conto che in nessun momento della cena ho cercato di immaginarmi chi avevo di fronte, non ho ascoltato davvero le mie sensazioni, non le ho fatte fluire. Aggrappata così tanto al senso della vista non mi è venuto istintivo cercare di percepire le persone intorno a me con gli altri sensi. Mi ritorna in mente il momento poco prima di entrare nella stanza: io, mia mamma e mia sorella siamo le ultime e aspettiamo che una ad una ci vengano a prendere per portarci al tavolo. Chiacchieriamo con la ragazza giovane che dirige un po’ tutta la serata. Dopo appena un minuto lei chiede a mia mamma “Lei è un insegnante?”. Beccata subito!
Quanto abbiamo da imparare! Vorrei davvero riuscire a stimolare, allenare, ampliare, ingigantire la mia capacità di percezione del mondo. Ho perso un’occasione? Poi però ci penso …… 5 mesi di corso di lingua dei segni, a spalancare gli occhi, ad allenare la memoria visiva e chiudere voce e orecchie: sarà forse anche questo?
I nostri ospiti si presentano, ci indicano chi ha servito quale tavolo, scherzano su qualcuno di noi che ha fatto troppo chiasso, ci ringraziano, ricordandoci i prossimi appuntamenti. Usciamo tutti veloci, silenziosi. E’ più tardi del previsto.
Ma io non vedo l’ora di rifarlo.
Alida Vanni Bologna 21 aprile 2008
Giorno di ferie. Ne approfitto per andare a studiare in biblioteca, come per tornare ai vecchi tempi. L’esame è vicino.
Mi raggiunge Mà “Guarda qui” mi dice allungandomi un piccolo foglietto giallo.
“CENA AL BUIO” vedo scritto in cima, con tutte le indicazioni a seguire, giorno, orario, menu…….
Che bello! Da quando è nato il mio percorso di approfondimento su varie diversità (chiamiamolo così, per semplicità) questo era uno tra i desideri rimasti in sospeso: perché ne avevo sentito parlare e l’idea di vivere, anche se per poche ore, da non vedente mi incuriosiva tantissimo. (Ho saputo che a Vienna c’è anche un museo che organizza eventi di questo tipo, aperti ai bambini coi genitori).
“Che giorno è?” “Venerdi sera. Il 28”.
E’ purtroppo proprio la sera prima del mio esame, ma è un’occasione da non perdere, chissà quando mi ricapita!
Così la sera stessa mando una decina di sms per avvisare alcuni amici e il giorno dopo prenoto, per me e mia mamma. Il titolare dell’osteria è felicissimo quando gli dico “sono molto interessata”.
Passano i giorni e la mia ansia sale. Riuscirò a vivermi bene la serata senza il pensiero dell’esame alle 8 del mattino dopo?
Fino all’ultimo il dubbio rimane, perché il cervello si è chiuso, non riesco più a studiare, sono troppo stanca, dopo 5 mesi di corso ho troppa voglia di finire.
Mà mi confessa d’avermi proposto la serata pensando che mi potesse aiutare in questo studio tutto nuovo in cui mi sono improvvisamente immersa: la lingua dei segni. “Ma mamma, è una cena al buio, con i ciechi, cosa c’entrano i sordi?!”. Viene proprio da sorridere, i sordi comunicano con i segni, al buio sarebbe un po’ difficile. Ma anche questo fa riflettere un bel po’.
Arriva il venerdì, si aggiunge alla combriccola anche mia sorella, gli amici hanno disertato, non sono poi in tanti a volersi mettere in gioco.
Sono tranquilla, c’è scritto che i camerieri saranno non vedenti perciò sono sicura che ci aiuteranno. E infatti è
così, ci accompagnano in sala uno ad uno e la prima forte sensazione è quella di essere protetti, fortemente protetti.
La sala sembra enorme, le voci sono tante, si intrecciano e rimbombano. Mi accorgo che istintivamente i miei occhi cercano le pochissime fonti di luce esistenti, minuscoli spifferi di luce che si intrufolano tra i teli che oscurano la stanza da tutti i lati. Eppure non riesco a vedere nemmeno la sagoma di mia mamma che siede di fronte a me. Il buio è nonostante tutto profondo.
I primi momenti se li prende l’imbarazzo. Non si sa che fare.Tocco le posate, il bicchiere, il bordo del tavolo per capire dove sto, registro le mie coordinate. “Sono qui”, io e mia mamma ci diamo sicurezza allungando la mano fino a trovarci.
Mia sorella è nel tavolo di fronte, ma sembra tutt’altro che abbandonata e spaurita. Si sente la sua voce che chiacchiera coi suoi vicini.Passa un po’ di tempo prima di presentarci e cominciare a conoscere gli altri ragazzi del nostro tavolo; il passaggio della caraffa di acqua scioglie il ghiaccio: poco a poco gli interessi comuni ci abbracciano e l’attesa tra una portata e l’altra non sembra più così lunga. Hanno già portato l’antipasto.
Ritocco le posate che non si sono spostate di un millimetro ma alla fine non le uso: prosciutto, mortadella, del resto forse li avrei mangiati con le mani anche alla luce, tra le quattro mura di casa mia.
Qualcuno dice “c’è anche un salume ferrarese” ma io non lo riconosco, o almeno, non faccio in tempo perché svuoto il piatto prima ancora che arrivi il pane.
E’ per questo forse che ho tanta sete. La caraffa è di fronte a me, sempre se qualcuno non l’ha spostata…..
Non so perché ma di una cosa ero convinta: che ci avrebbero versato loro da bere.
Macchè!. Mi sento proprio allo sbaraglio, ma forse è giusto così. Mi accingo nell’impresa che fin dal primo momento ho considerato la più ardua. Sento il rumore dell’acqua, il bicchiere che aumenta un pochino il suo peso nella mia mano sinistra.
Grande! Ce l’ho fatta. Appoggio senza danni la caraffa e finalmente mi disseto. Ah! Ma? Tutto qui? Con tutta la mia attenzione e la mia paura ne ho versate solo due dita, mi bagno giusto le labbra e la sete vera rimane.
Ma qualcuno ha già chiesto il vino e decido di aspettare. Rosso, rosso, al nostro tavolo siamo tutti d’accordo.
Il chiasso aumenta sempre più, quasi tutti urliamo, mentre sento i camerieri andare avanti e indietro per la sala. La loro sicurezza negli spostamenti è impressionante. Sono veloci e delicati allo stesso tempo. Non un gesto fuori luogo, coordinate
precise, riconoscimenti immediati e spontanei.
Sento una persona che passa silenziosa dietro a me. Ne approfitto: “Posso chiederle aiuto?” - “Si” - “Avrei bisogno di andare in bagno”. Un attimo di silenzio. Con qualche difficoltà sento che si avvicina al mio orecchio “Sono quello del tuo tavolo, sto facendo un giro per fare uno scherzo ai miei amici”. Non ho parole.
Qualcuno che si approfitta della situazione per fare il cretino c’è sempre. Ma purtroppo la serata riserva anche peggio in tal proposito.
“Spegnete i cellulari, toglietevi gli orologi o qualunque altra fonte di luce, mi raccomando” ci hanno ripetuto più volte prima di entrare. Eccolo lì, nel tavolo dietro al nostro, l’imbecille che accende il cellulare inondando la stanza di un filo di luce che spezza in mille frantumi il buio e l’atmosfera. Solo pochi secondi perché l’ ”OHHH” generale di un po’ tutti è una minaccia troppo grande e lui fa bene ad avere paura d’essere riconosciuto. Ma quel breve istante è bastato ad irritarmi. Mi chiedo perché anche in queste occasioni si devono aggregare personaggi del genere che a quanto pare non hanno capito proprio NIENTE (diciamo che sospendo il giudizio perché ce ne sarebbe da dire…).Questa mancanza di rispetto mi scuote ma mi accorgo che gli organizzatori sono tranquilli, chissà quante ne hanno passate di situazioni così. Qualcuno di loro ci invita a non farci caso, felici forse di avere tra di noi persone davvero interessate.Anche Mamma calma la mia stizza, dicendo di lasciar perdere, tamponando il mio “sono degli idioti”, così decido di versarmi finalmente il vino.
Stavolta mi faccio furba: infilo il dito indice dentro al bicchiere, spingendo forte i polpastrelli delle altre dita della mano sinistra, così poco abituate a fare presa.
L’equilibrio è precario ma almeno così saprò quando il vino arriverà in cima: e infatti è proprio così, me ne accorgo senza dubbi, il vino arriva sulla punta del dito, sulla nocca, sulla mano e si rovescia irruente sul mio piatto. Un decimo di secondo.
Più che il dito indice sinistro era il gomito destro da regolare! Nessuno mi vede ma io mi sento cretina uguale. Per fortuna mi sono vestita apposta di nero, pensando al reale rischio di rovesciarmi addosso qualcosa.
A parte la mano in realtà sono asciutta, l’ho scampata bella: ho fatto poco danno e il vino è proprio buono.
Acquisto sicurezza. Mia sorella dal tavolo di fronte mi dice “sono qui” col suo bicchiere di vino bianco. In un istante realizzo che in quel momento nessuno passa e mi fiondo verso di lei. Le gambe rispondono ancora, le braccia allungate in avanti alla mosca cieca, ma non proprio dritte dritte ma rivolte un po’ più giù, verso il basso, per cercare il tavolo ed evitare un dito nell’occhio a mia sorella.La sua voce sembra lontanissima e invece in poco più di mezzo passo sono al suo tavolo, bevo un sorso al volo dal suo bicchiere “umh buono”, e riconquisto zitta zitta la mia sedia, con un leggero batticuore e la sensazione d’aver attraversato un’autostrada rimanendo straordinariamente indenne.
La compagnia aumenta, si aggiungono dei ragazzi nel tavolo dietro a mia mamma, aumentando la confusione a livelli stratosferici.
Passa il primo. Le posate sono ancora al loro posto. Cannelloni e lasagne che litigano con la mia forchetta. Sarebbe interessate assistere all’inseguimento tra forchetta, dito indice impiastricciato, pasta srotolata e ripieno di carne che si sta svolgendo sotto i miei occhi.
Al nostro tavolo rianimiamo un po’ la conversazione. I commenti sui segni zodiacali e sulle origini (3 bolognesi, 2 toscane, 1 olandese) vengono interrotte dalle domande dei nostri ospiti.
“Avete riconosciuto qualche cosa?” , “Riuscite a mangiare con le posate?” Ci rassicurano che qualche volta anche a loro
capita di aiutarsi con le mani; la differenza è che però a noi non ci vede nessuno, mentre loro vivono in un modo di vedenti. Si avvicina un cameriere per sparecchiare e finalmente slancio la mia domanda più grande: ”mi scusi, ma voi utilizzate la parola “non vedente” o “cieco”?”. Mi risponde che per lui che non c’è differenza ma non mi dà molta corda. In realtà per tutta la serata ho sentito utilizzare sempre e solo “non vedente” e il dubbio mi rimane. Quando ho iniziato a conoscere il mondo dei sordi usavo sempre l’espressione “non udente” e la mia amica interprete mi correggeva sempre: “sordi”! Durante il corso di' Lingua dei segni' effettivamente ho visto e sentito usare sempre e solo i termini “udente” e “sordo” o “sordomuto”, che c’è pure nel nome dell’Ente Nazionale.“Non vedente” , “non udente” , ….. effettivamente è come indicare una persona come un “non” qualcosa.
Come se io fossi una “non mora”, “non inglese”, “non dottore” …….Sarà? Ciò che importa poi non sono le parole.
Intanto sono qui immersa nel buio, con mia mamma che ancora si chiede e ci chiede se sia meglio tenere gli occhi chiusi o aperti.
Io ascolto. Ci provo. Ascolto il mio corpo per cercare di sentire, nonostante il chiasso sempre più forte: i nuovi arrivati sono del tipo “accendo il cellulare” e stavolta vengono ripresi anche da un cameriere perché stanno esagerando.
La mia scappata in bagno è velocissima. L’impatto forte con la luce mi fa percepire il buio così morbido e accogliente che torno subito al mio posto, non senza notare però di sfuggita i pomellini rossi sulle mie guance.
E’ il momento del secondo ma mi abbandono ai pensieri e mangio meno. Ascolto gli altri e mi rilasso, tanto che giro e rigiro il mio anello, ci gioco, lo tolgo, lo rimetto, lo tolgo, lo rimetto, cambio mano, cambio dito, lo tolgo e….. eccolo là, mi cade! Mi sembra quasi di vederlo: tin tin tin…..scivola giù verso il tavolo dietro al mio.“Non ci posso credere” voglio ridere coi miei compagni di tavolata che si preoccupano più di me. “Non importa, non è di valore….”. Però ci provo lo stesso. Zitta zitta scivolo dalla sedia e mi metto a gattoni tra i due tavoli. Se qualcuno si sposta indietro in questo momento facciamo un disastro. Ma quasi tutti stanno fermi al loro posto, la percentuale di gente in gamba qui dentro è fortunatamente alta.
Allungo la mano, tasto qua e là coprendo una piccola semicirconferenza, “Tanto ora lo trovo” mi convinco, sapendo allo stesso tempo che il 90% delle volte che mi succede a casa, alla luce, ritrovo ciò che ho perso solo dopo 1 settimana.
I tempi si allungano e l’attesa diventa pesante. Ecco che penso all’esame, al vino che ho bevuto, al dolce che deve arrivare.
Chissà che ora è? Qualcuno viene invitato a provare a gironzolare nella stanza accompagnato da qualcuno di loro. Chiamo mia sorella una volta, due volte, alzo la voce, la richiamo. Solo dopo realizzo che la pausa sigaretta è tra le sue priorità.
I dolci arrivano, insieme ad alcuni piccoli oggetti che raffigurano qualcosa. “Avete indovinato?” ma l’impresa è ardua, sembrano dei portachiavi (il mio provo pure a morderlo ma ho subito la certezza che non si tratta di un biscotto).
Ci avvisano che il ritorno alla luce sarà graduale, toglieranno i tendoni che chiudono le fessure poco a poco e solo dopo accenderanno le luci.
Ora sì comincio a raccogliere le sensazioni per poterle confrontare con quanto sto per vedere.
Le dimensioni della stanza sono completamente all’opposto da quello che mi sarei aspettata. Le distanze, la grandezza, le dimensioni. Così poco abituati ad ascoltare, non siamo in grado di percepire i tragitti della nostra voce, i rimbalzi, le traiettorie, le sfumature.Un silenzio fatto di bisbigli solo tra chi si conosce cambia totalmente l’atmosfera.
Tra vicini di tavolo si fatica a salutarsi. E’ davvero strano. Mi sarei aspettata gridolini di sorpresa tra tutti noi “Ma dai, sei tu quello con cui parlavo prima?”, “Ma ciao, piacere!” , ... e invece no, siamo tutti imbarazzati.
Mi rendo conto che in nessun momento della cena ho cercato di immaginarmi chi avevo di fronte, non ho ascoltato davvero le mie sensazioni, non le ho fatte fluire. Aggrappata così tanto al senso della vista non mi è venuto istintivo cercare di percepire le persone intorno a me con gli altri sensi. Mi ritorna in mente il momento poco prima di entrare nella stanza: io, mia mamma e mia sorella siamo le ultime e aspettiamo che una ad una ci vengano a prendere per portarci al tavolo. Chiacchieriamo con la ragazza giovane che dirige un po’ tutta la serata. Dopo appena un minuto lei chiede a mia mamma “Lei è un insegnante?”. Beccata subito!
Quanto abbiamo da imparare! Vorrei davvero riuscire a stimolare, allenare, ampliare, ingigantire la mia capacità di percezione del mondo. Ho perso un’occasione? Poi però ci penso …… 5 mesi di corso di lingua dei segni, a spalancare gli occhi, ad allenare la memoria visiva e chiudere voce e orecchie: sarà forse anche questo?
I nostri ospiti si presentano, ci indicano chi ha servito quale tavolo, scherzano su qualcuno di noi che ha fatto troppo chiasso, ci ringraziano, ricordandoci i prossimi appuntamenti. Usciamo tutti veloci, silenziosi. E’ più tardi del previsto.
Ma io non vedo l’ora di rifarlo.
Alida Vanni Bologna 21 aprile 2008