Cercare la strada
Per scegliere un percorso il viandante o il pellegrino si affida alle impronte lasciate dalla storia, dalle esperienze degli altri e dalle tradizioni che il territorio conserva.
Può così ripetere quelle prove che sente importanti, costruirne delle nuove e a sua volta lasciare nuovi contributi. Ricercando quella strada che è la via non geografica, ma il progetto della propria vita, si troverà più solo nelle scelte e ad affrontare gli ostacoli e le difficoltà che arriveranno in modo imprevedibile.
E di questo cammino c’è un simbolo che lo rappresenta, come monito riportato da antichi racconti e da diverse culture: il labirinto. Da piccoli possiamo averlo incontrato nel Gioco dell’Oca, e poi riconosciuto nei grandi giardini monumentali, nelle chiese o nelle opere d’arte, sempre a mostrare che per raggiungere un meta, un centro od una via d’uscita la strada non è diritta e lineare ma spesso si presenta sbarrata e piena di ostacoli. I viali curvilinei del giardino di Boboli a Firenze ricordano i precedenti labirinti di siepi e piante, mentre nel parco del Castello di Donnafugata a Ragusa il labirinto in pietra è particolare non solo per la struttura, ma anche perché rappresenta una via senza uscita.
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I tre labirinti
di Luciano Mazzucco La mia ricerca su una delle più antiche strade per Roma ha avuto il privilegio di essere protetta dal messaggio espresso da i tre labirinti incontrati lungo il percorso. Il primo , non possiamo dire per importanza perché tutti e tre sono bellissimi e interessanti, si trova a Pavia da dove è cominciato questo cammino. La basilica di San Michele Maggiore con la sua bellissima facciata in stile romanico lombardo presenta una storia molto importante, tanto che la presenza di un eccezionale labirinto rischia di essere dimenticata. Il labirinto ha persino rischiato la sua esistenza, infatti oggi lo troviamo mutilato di una sua parte a causa dello spostamento dell’altare avvenuto nel XIV secolo. Gli studiosi possono però dedicarsi in modo completo allo studio del suo significato in un disegno integro che è conservato nella Biblioteca Vaticana. Il labirinto cita in modo esplicito quello che abbiamo conosciuto nelle storie simboliche che la Grecia ci ha tramandato :il mito di Creta. L’interpretazione del labirinto di Pavia comincia con un mosaico che colpisce subito lo sguardo ed è legato al progetto generale della struttura di tutta la chiesa. La figura centrale rappresenta l’Anno, un re seduto su un trono circondato dai i Mesi, che ricorda aifedeli il rapporto della vita terrena con quella simbolica. Il cammino continua a Pontremoli, passando per Bobbio , sull’ antico tracciato, quello che gli Abati del Monastero facevano per andare a Roma, e fa una tappa importante a Pontremoli . In questa splendida città della Lunigiana ho trovato l’altro labirinto, una lastra in pietra arenaria conservata nella chiesa di San Pietro, alla fine del borgo . Più difficile da poter ammirare anche per i pellegrini sulla Via Francigena per gli orari di apertura della chiesa, ma è un grande compenso per chi si organizza per poterlo ammirare. Il motto in fondo alla scultura recita :SIC CURRITE UT COMPREHENDATIS che richiama il versetto 9 – 24 della lettera ai Corinzi , interpretato come : suvvia correte a conquistarlo è stato un efficace stimolo a riprendere il cammin ed insieme ad arrivare alla meta simbolica, che in chiave cristiana è stata individuata nella Fede. Il cammino continua :ancora circa sette tappe, per un impegno di centocinquanta chilometri entrando nella Garfagnana. La strada si congiunge con quella celebrata come ‘Via del Volto Santo ‘ e ci porta fino a Lucca. L’incontro del terzo labirinto è al duomo di Lucca. Dedicata a San Martino la cattedrale ha una storia molto importante e onorata richiamando la venerazione del Volto Santo, un crocifisso in legno protetto da un tempietto nella terza campata della navata laterale sinistra. Se poi oltre a questa devozione lasciamo spazio all’arte e vogliamo dedicare l’attenzione alla deposizione di Nicola Pisano o alla Madonna del Ghirlandaio comprendiamo che possa essere facile non prestare attenzione alla più modesta presenza di un labirinto. Si trova sulla facciata dell’edificio , all’entrata laterale sotto l’arcata più piccola; rappresenta un disegno più regolare inscritto in un cerchio con una soluzione unica per raggiungere il centro. Alla destra della scultura si trova una scritta in latino che cita l’antica storia di dedalo e del filo di Arianna. Invito al costanza, alla umiltà, alla accettazione dei propri errori, queste le riflessioni che suscitano questi tre labirinti, fra storia, morale e arte. |
Labirinto di PaviaIl labirinto di PontremoliIl labirinto di Lucca |
Le norme dei Longobardi sui pellegrini diretti a Roma
di Mario Pampanin
Va ricordato che il fenomeno dell’arrivo in Italia di pellegrini, provenienti specialmente dalle Isole Britanniche e diretti a Roma, diventa rilevante già nei primi decenni dell’ottavo secolo, in piena età longobarda. Lo attesta puntualmente Paolo Diacono, nella sua Historia Langobardorum, quando segnala che in quel periodo era ormai usuale che molti Angli e Britanni (ma verosimilmente anche non pochi Irlandesi) venissero a Roma “spinti dall’amore di Dio”. Si trattava, come precisa lo storico, di persone di ogni condizione personale e sociale: “nobili e non nobili, uomini e donne, personaggi pubblici e semplici privati”
Il fenomeno non era certo del tutto nuovo. Già un secolo prima ad esempio un santo abate irlandese, Colombano, trovandosi in Gallia come peregrinus pro Christo, scriveva a papa Gregorio Magno manifestandogli il proprio desiderio di raggiungere Roma e di venerare le spoglie degli apostoli [1]. Ma anche diversi sovrani e duchi appartenenti ad altre popolazioni erano nel frattempo venuti a Roma per rendere omaggio alla sede apostolica, come Paolo Diacono non mancava di ricordare. E peraltro con l’inizio dell’ottavo secolo il passaggio dei pellegrini incominciava a presentare dimensioni non trascurabili, che ponevano qualche problema e richiedevano attenzione agli stessi governanti.
Non si dimentichi che per giungere in Italia, entrando dai confini del regno longobardo, i pellegrini dovevano passare usualmente attraverso i valichi alpini, muniti a quel tempo di un apposito sistema di opere di difesa, note come le “chiuse longobarde”. Si trattava di sommarie fortificazioni, realizzate in epoca antica all’imbocco delle valli alpine, per impedire eventuali invasioni della pianura padana da parte delle popolazioni d’Oltralpe. Solo raramente le chiuse erano vere muraglie in pietra, intervallate da torri; più spesso si trattava di strutture difensive minori, che sfruttavano gli ostacoli naturali già esistenti in corrispondenza del restringimento delle valli.
Ora la sicurezza e la difesa dei confini (e di riflesso la manutenzione ed il presidio delle chiuse) rappresentano una preoccupazione costante dei sovrani longobardi durante l’ottavo secolo; preoccupazione che ben si spiega anche per il progressivo deteriorarsi dei rapporti con il vicino bellicoso regno dei Franchi. Di qui le ricorrenti disposizioni dei sovrani dirette a far riparare e rinforzare le chiuse, a partire da quelle della Val di Susa, collegate ai valichi del Moncenisio e del Monginevro (che poi diventeranno ben note proprio per la vittoria ivi riportata da Carlo Magno) Ma prima ancora si registrano pure altre disposizioni, intese a disciplinare il passaggio attraverso le chiuse delle persone, compreso – ciò che qui più interessa – il passaggio dei pellegrini.
Si tratta in particolare di alcune disposizioni di legge emanate dal sovrano longobardo Ratchis alla metà del secolo, e precisamente nell'anno 746, che servono ad integrare l’editto di Rotari - testo basilare delle leggi longobarde - con lo scopo di controllare il movimento degli stranieri in Italia e di limitare gli espatri.
La preoccupazione di custodire e difendere i confini ispira anzitutto in via generale la regola per cui nessuno possa entrare od uscire passando il confine senza un apposito contrassegno o una lettera del re. I funzionari regi incaricati della vigilanza sui confini vengono quindi comandati di prestare in tal senso la necessaria attenzione, anche avvalendosi dei loro sottoposti e delle guardie di frontiera.
Una disciplina particolare è però prevista nel caso dei pellegrini diretti a Roma, nel momento in cui questi entrino in territorio italico attraverso i valichi di confine: il loro passaggio è visto infatti con favore, ma la preoccupazione è che tra i veri pellegrini possano infiltrarsi anche emissari dei nemici, destinati ad operare come spie o possibili agenti sobillatori
Ne seguono quindi alcune regole specifiche: "Quando ai nostri valichi di confine giungono, per entrare, i pellegrini che si propongono di andare a Roma, il funzionario li deve interrogare scrupolosamente di dove sono; e se riconosce che vengono senza malizia, il funzionario o la guardia di confine faccia un lasciapassare e vi metta della cera e vi apponga il suo sigillo, perché essi mostrino poi quel contrassegno ai nostri messi, che noi abbiamo delegato. Dopo questo contrassegno, i nostri messi diano loro una lettera per recarsi a Roma e quando ritornano da Roma ricevano un contrassegno dell'anello del re. Se invece si riconosce che essi vengono con intenti fraudolenti, li mandino da noi con dei messi e ci venga segnalata la questione".L’utilità di questa disciplina per i pellegrini è evidente: in mancanza di tali disposizioni particolari, giungendo ai valichi essi dovrebbero essere respinti, essendo sprovvisti del contrassegno o della lettera del re normalmente prescritti. Invece, in via derogatoria, possono ottenere al momento un salvacondotto provvisorio, che consente di proseguire il viaggio e di ricevere in seguito dagli incaricati del re (forse in quel di Pavia, sede della corte longobarda) la lettera di rito richiesta per entrare e circolare in Italia, secondo la regola generale.
Soltanto i pellegrini “sospetti” non potranno ovviamente ottenere questo salvacondotto e dovranno essere accompagnati sotto scorta presso la corte del re, e dunque a Pavia; che si conferma anche per questo un punto nevralgico del cammino verso Roma, giustificando così la curiosa spiegazione etimologica del suo nome come “via del Papa” (Papae via).
Analoghe osservazioni potrebbero farsi con riguardo al viaggio di ritorno, in relazione al passaggio in uscita dei valichi che i pellegrini effettuavano sulla via per tornare a casa. Ancora una volta le guardie di confine avrebbero dovuto impedirlo (“nessuno esca senza un sigillo o una lettera”), ma proprio per questo i pellegrini che ritornavano da Roma, verosimilmente all’atto di ripassare da Pavia dove si trovava la reggia, venivano muniti del contrassegno con il sigillo del re, potendo così presentarsi in regola all’uscita dal confine. Merita di essere aggiunto che, oltre a queste disposizioni riguardanti il passaggio dai valichi alpini, e segnatamente dal Moncenisio attraverso la Val di Susa, altre disposizioni si occupavano poi dei transiti dal nord al centro della Penisola (e degli arrivi dai domini bizantini) attraverso i territori della Tuscia. "Ciascuno dei funzionari preposti alle circoscrizioni nei territori della Tuscia faccia attenzione che nessun uomo possa transitare senza il consenso del re o senza un qualche sigillo; e se si scopre che qualcuno è passato senza un ordine o senza un sigillo, il funzionario, se non può scagionarsi, paghi una sanzione pecuniaria".
Non occorre sottolineare come questa disciplina sui salvacondotti o lasciapassare dei pellegrini, tanto risalente nel tempo da ricondurre ai primi secoli dell’alto medioevo, lasci intravvedere una sorta di equivalente secolare della pratica delle "credenziali", notoriamente richieste ai pellegrini per poter effettuare senza contestazioni il loro viaggio; ma sembra pure di potervi scorgere il riflesso di quell’atteso "testimonium" che, una volta raggiunta la meta di Roma, serviva poi sulla via del ritorno per attestare l'avvenuto compimento del pellegrinaggio.
di Mario Pampanin
Va ricordato che il fenomeno dell’arrivo in Italia di pellegrini, provenienti specialmente dalle Isole Britanniche e diretti a Roma, diventa rilevante già nei primi decenni dell’ottavo secolo, in piena età longobarda. Lo attesta puntualmente Paolo Diacono, nella sua Historia Langobardorum, quando segnala che in quel periodo era ormai usuale che molti Angli e Britanni (ma verosimilmente anche non pochi Irlandesi) venissero a Roma “spinti dall’amore di Dio”. Si trattava, come precisa lo storico, di persone di ogni condizione personale e sociale: “nobili e non nobili, uomini e donne, personaggi pubblici e semplici privati”
Il fenomeno non era certo del tutto nuovo. Già un secolo prima ad esempio un santo abate irlandese, Colombano, trovandosi in Gallia come peregrinus pro Christo, scriveva a papa Gregorio Magno manifestandogli il proprio desiderio di raggiungere Roma e di venerare le spoglie degli apostoli [1]. Ma anche diversi sovrani e duchi appartenenti ad altre popolazioni erano nel frattempo venuti a Roma per rendere omaggio alla sede apostolica, come Paolo Diacono non mancava di ricordare. E peraltro con l’inizio dell’ottavo secolo il passaggio dei pellegrini incominciava a presentare dimensioni non trascurabili, che ponevano qualche problema e richiedevano attenzione agli stessi governanti.
Non si dimentichi che per giungere in Italia, entrando dai confini del regno longobardo, i pellegrini dovevano passare usualmente attraverso i valichi alpini, muniti a quel tempo di un apposito sistema di opere di difesa, note come le “chiuse longobarde”. Si trattava di sommarie fortificazioni, realizzate in epoca antica all’imbocco delle valli alpine, per impedire eventuali invasioni della pianura padana da parte delle popolazioni d’Oltralpe. Solo raramente le chiuse erano vere muraglie in pietra, intervallate da torri; più spesso si trattava di strutture difensive minori, che sfruttavano gli ostacoli naturali già esistenti in corrispondenza del restringimento delle valli.
Ora la sicurezza e la difesa dei confini (e di riflesso la manutenzione ed il presidio delle chiuse) rappresentano una preoccupazione costante dei sovrani longobardi durante l’ottavo secolo; preoccupazione che ben si spiega anche per il progressivo deteriorarsi dei rapporti con il vicino bellicoso regno dei Franchi. Di qui le ricorrenti disposizioni dei sovrani dirette a far riparare e rinforzare le chiuse, a partire da quelle della Val di Susa, collegate ai valichi del Moncenisio e del Monginevro (che poi diventeranno ben note proprio per la vittoria ivi riportata da Carlo Magno) Ma prima ancora si registrano pure altre disposizioni, intese a disciplinare il passaggio attraverso le chiuse delle persone, compreso – ciò che qui più interessa – il passaggio dei pellegrini.
Si tratta in particolare di alcune disposizioni di legge emanate dal sovrano longobardo Ratchis alla metà del secolo, e precisamente nell'anno 746, che servono ad integrare l’editto di Rotari - testo basilare delle leggi longobarde - con lo scopo di controllare il movimento degli stranieri in Italia e di limitare gli espatri.
La preoccupazione di custodire e difendere i confini ispira anzitutto in via generale la regola per cui nessuno possa entrare od uscire passando il confine senza un apposito contrassegno o una lettera del re. I funzionari regi incaricati della vigilanza sui confini vengono quindi comandati di prestare in tal senso la necessaria attenzione, anche avvalendosi dei loro sottoposti e delle guardie di frontiera.
Una disciplina particolare è però prevista nel caso dei pellegrini diretti a Roma, nel momento in cui questi entrino in territorio italico attraverso i valichi di confine: il loro passaggio è visto infatti con favore, ma la preoccupazione è che tra i veri pellegrini possano infiltrarsi anche emissari dei nemici, destinati ad operare come spie o possibili agenti sobillatori
Ne seguono quindi alcune regole specifiche: "Quando ai nostri valichi di confine giungono, per entrare, i pellegrini che si propongono di andare a Roma, il funzionario li deve interrogare scrupolosamente di dove sono; e se riconosce che vengono senza malizia, il funzionario o la guardia di confine faccia un lasciapassare e vi metta della cera e vi apponga il suo sigillo, perché essi mostrino poi quel contrassegno ai nostri messi, che noi abbiamo delegato. Dopo questo contrassegno, i nostri messi diano loro una lettera per recarsi a Roma e quando ritornano da Roma ricevano un contrassegno dell'anello del re. Se invece si riconosce che essi vengono con intenti fraudolenti, li mandino da noi con dei messi e ci venga segnalata la questione".L’utilità di questa disciplina per i pellegrini è evidente: in mancanza di tali disposizioni particolari, giungendo ai valichi essi dovrebbero essere respinti, essendo sprovvisti del contrassegno o della lettera del re normalmente prescritti. Invece, in via derogatoria, possono ottenere al momento un salvacondotto provvisorio, che consente di proseguire il viaggio e di ricevere in seguito dagli incaricati del re (forse in quel di Pavia, sede della corte longobarda) la lettera di rito richiesta per entrare e circolare in Italia, secondo la regola generale.
Soltanto i pellegrini “sospetti” non potranno ovviamente ottenere questo salvacondotto e dovranno essere accompagnati sotto scorta presso la corte del re, e dunque a Pavia; che si conferma anche per questo un punto nevralgico del cammino verso Roma, giustificando così la curiosa spiegazione etimologica del suo nome come “via del Papa” (Papae via).
Analoghe osservazioni potrebbero farsi con riguardo al viaggio di ritorno, in relazione al passaggio in uscita dei valichi che i pellegrini effettuavano sulla via per tornare a casa. Ancora una volta le guardie di confine avrebbero dovuto impedirlo (“nessuno esca senza un sigillo o una lettera”), ma proprio per questo i pellegrini che ritornavano da Roma, verosimilmente all’atto di ripassare da Pavia dove si trovava la reggia, venivano muniti del contrassegno con il sigillo del re, potendo così presentarsi in regola all’uscita dal confine. Merita di essere aggiunto che, oltre a queste disposizioni riguardanti il passaggio dai valichi alpini, e segnatamente dal Moncenisio attraverso la Val di Susa, altre disposizioni si occupavano poi dei transiti dal nord al centro della Penisola (e degli arrivi dai domini bizantini) attraverso i territori della Tuscia. "Ciascuno dei funzionari preposti alle circoscrizioni nei territori della Tuscia faccia attenzione che nessun uomo possa transitare senza il consenso del re o senza un qualche sigillo; e se si scopre che qualcuno è passato senza un ordine o senza un sigillo, il funzionario, se non può scagionarsi, paghi una sanzione pecuniaria".
Non occorre sottolineare come questa disciplina sui salvacondotti o lasciapassare dei pellegrini, tanto risalente nel tempo da ricondurre ai primi secoli dell’alto medioevo, lasci intravvedere una sorta di equivalente secolare della pratica delle "credenziali", notoriamente richieste ai pellegrini per poter effettuare senza contestazioni il loro viaggio; ma sembra pure di potervi scorgere il riflesso di quell’atteso "testimonium" che, una volta raggiunta la meta di Roma, serviva poi sulla via del ritorno per attestare l'avvenuto compimento del pellegrinaggio.
Per Iona,
un'isola sulla costa occidentale della Scozia, è rimasto per tanti anni un
leggero prurito nella mia mente. Anni fa Kenneth Clarke, nella meravigliosa
serie televisiva”Civiltà” ha parlato di Iona ed altri piccole isole attorno
alle coste della Scozia, come i luoghi dove la torcia della civiltà è rimasta
accesa durante i secoli bui che seguirono alla caduta dell’ impero romano. Era
lì che i monaci si impegnarono a copiare le sacre scritture e i classici. Senza
loro forse ci sarebbe stato ben poco da riscoprire quando finalmente l'Europa
si svegliò dal suo sonno.
In me si è accesa la scintilla della curiosità e per tanti anni ho sperato di poterci andare. Quest'anno l'occasione si è presentata quando io e la mia amica scozzese abbiamo deciso di passare un weekend a visitare le isole di Mull e Iona, che fanno parte degli Ebridi. Iona sta a sud-ovest di Mull ed e raggiungibile via mare. Un piccolo traghetto ci mette circa 15 minuti per fare la traversata e da Mull l'abbazia e chiaramente visibile.
L'importanza di questa piccola isola sta nel fatto che è lì che San Columba arrivò nel 563 d.C. .Era dovuto fuggire dall'Irlanda approdando su una spiaggia nel sud dell'isola e da lì si mise in cammino verso un punto nel centro della costa orientale dove insieme a suoi seguaci fondò la prima comunità monastica della Scozia. Venivano a trovarlo tanti pellegrini e naturalmente loro portavano a casa la notizia di questo gruppo di cristiani, aiutarono così la diffusione della fede e della cultura cristiana. Come si può immaginare il piccolo monastero col passare degli anni diventò un punto di riferimento per quelli che volevano sapere di più di questa fede e questo ha portato al suo arricchimento. In conseguenza ha attirato lo sguardo rabbioso dei vichinghi che a quei tempi regnavano sulla Scozia e suoi mari. Loro percepirono una minaccia in quella comunità pacifica e presero a lanciare le loro navi in attacchi tremendi, in tentativi di annientare sia la comunità sia le idee che essa rappresentava.
Nonostante le continue sanguinose aggressioni la comunità mantenne la sua attività anche dopo la morte del suo fondatore fino ad essere riconosciuta come un centro di fede e di studio.
Il famosissimo Libro di Kells che fino a poco tempo fa era ritenuto un opera irlandese fu invece il lavoro dei monaci di Iona portato poi in Irlanda per proteggerlo dagli raid dei vichinghi.
Nel 1200 l'abbazia aderì al Ordine dei Benedettini vivendo con più calma fino alla riformation. Poi è arrivato l'abbandono e la caduta in rovina di tutto il monastero fino a meta del '800 quando ha avuto l'inizio il restauro della chiesa e nel 1938 la Iona Community ha cominciato il restauro del chiostro. Ma più di un restauro è stato un lavoro di ricostruzione ma non è riuscito del tutto. L'abbazia, nel suo attuale stato non è particolarmente bella ed è sotto l'assalto continuo di gruppi di turisti frettolosi ma per me l'esperienza è stata profonda.
L'isola è piccola, brulla e ci abitano più animali che persone e questo vuol dire che una volta allontanatosi dall'abbazia si trova in un paesaggio che non dovrebbe essere molto cambiato da tempo incui ci arrivò Columba. Il mare, sempre visibile, e le altre isole nella distanza sono le stesse com'è lo stesso il vento che soffia sempre. Ci vuole poco per immaginare l'arrivo delle terrificanti navi dei vichinghi e di vedere i monaci correre a cercare di difendere le bianche spiagge. In molti occasioni ci sono stati massacri dei religiosi e anche dei pellegrini. Ovviamente Iona ora è un posto di pace ma è difficile non tener conto del passato. Se ora accoglie tutti è proprio perché 15 secoli fa un uomo è venuto per vivere secondo i suoi ideali di fede e pace.
Sono molto contenta di esserci stata e sono sempre più convinta che ancora oggi noi dobbiamo molto alle comunità monastiche che, come quella di Iona, hanno tenuto accesa la torcia della civiltà.. Se poi Columba è stata il maestro di quell’altro monaco irlandese Colombano che ha fondato monasteri in tutta Europa prima di arrivare a creare quello di Bobbio, sono ancor più contenta della mia visita.
In me si è accesa la scintilla della curiosità e per tanti anni ho sperato di poterci andare. Quest'anno l'occasione si è presentata quando io e la mia amica scozzese abbiamo deciso di passare un weekend a visitare le isole di Mull e Iona, che fanno parte degli Ebridi. Iona sta a sud-ovest di Mull ed e raggiungibile via mare. Un piccolo traghetto ci mette circa 15 minuti per fare la traversata e da Mull l'abbazia e chiaramente visibile.
L'importanza di questa piccola isola sta nel fatto che è lì che San Columba arrivò nel 563 d.C. .Era dovuto fuggire dall'Irlanda approdando su una spiaggia nel sud dell'isola e da lì si mise in cammino verso un punto nel centro della costa orientale dove insieme a suoi seguaci fondò la prima comunità monastica della Scozia. Venivano a trovarlo tanti pellegrini e naturalmente loro portavano a casa la notizia di questo gruppo di cristiani, aiutarono così la diffusione della fede e della cultura cristiana. Come si può immaginare il piccolo monastero col passare degli anni diventò un punto di riferimento per quelli che volevano sapere di più di questa fede e questo ha portato al suo arricchimento. In conseguenza ha attirato lo sguardo rabbioso dei vichinghi che a quei tempi regnavano sulla Scozia e suoi mari. Loro percepirono una minaccia in quella comunità pacifica e presero a lanciare le loro navi in attacchi tremendi, in tentativi di annientare sia la comunità sia le idee che essa rappresentava.
Nonostante le continue sanguinose aggressioni la comunità mantenne la sua attività anche dopo la morte del suo fondatore fino ad essere riconosciuta come un centro di fede e di studio.
Il famosissimo Libro di Kells che fino a poco tempo fa era ritenuto un opera irlandese fu invece il lavoro dei monaci di Iona portato poi in Irlanda per proteggerlo dagli raid dei vichinghi.
Nel 1200 l'abbazia aderì al Ordine dei Benedettini vivendo con più calma fino alla riformation. Poi è arrivato l'abbandono e la caduta in rovina di tutto il monastero fino a meta del '800 quando ha avuto l'inizio il restauro della chiesa e nel 1938 la Iona Community ha cominciato il restauro del chiostro. Ma più di un restauro è stato un lavoro di ricostruzione ma non è riuscito del tutto. L'abbazia, nel suo attuale stato non è particolarmente bella ed è sotto l'assalto continuo di gruppi di turisti frettolosi ma per me l'esperienza è stata profonda.
L'isola è piccola, brulla e ci abitano più animali che persone e questo vuol dire che una volta allontanatosi dall'abbazia si trova in un paesaggio che non dovrebbe essere molto cambiato da tempo incui ci arrivò Columba. Il mare, sempre visibile, e le altre isole nella distanza sono le stesse com'è lo stesso il vento che soffia sempre. Ci vuole poco per immaginare l'arrivo delle terrificanti navi dei vichinghi e di vedere i monaci correre a cercare di difendere le bianche spiagge. In molti occasioni ci sono stati massacri dei religiosi e anche dei pellegrini. Ovviamente Iona ora è un posto di pace ma è difficile non tener conto del passato. Se ora accoglie tutti è proprio perché 15 secoli fa un uomo è venuto per vivere secondo i suoi ideali di fede e pace.
Sono molto contenta di esserci stata e sono sempre più convinta che ancora oggi noi dobbiamo molto alle comunità monastiche che, come quella di Iona, hanno tenuto accesa la torcia della civiltà.. Se poi Columba è stata il maestro di quell’altro monaco irlandese Colombano che ha fondato monasteri in tutta Europa prima di arrivare a creare quello di Bobbio, sono ancor più contenta della mia visita.
Le gambe fanno giacomo giacomo
di Lucia Mazzucco
E’ facile capire il perchè sulle strade di pellegrinaggio della Spagna a più di un pellegrino sia tornato in mente il detto ‘le gambe fanno giacomo giacomo ‘.
Questa espressione popolare è diffusa in tutta Italia e si riferisce a quando per la stanchezza, prevalentemente generata da un lungo cammino , le gambe perdono la loro tenuta togliendo la sicurezza di poter reggersi in piedi.
Nel dizionario etimologico italiano, il DEI, l’origine di questo modo di dire è stato infatti attribuito a quella esperienza vissuta dai pellegrini sul Cammino di Santiago, nato quasi da una invocazione al santo nel sostenere la prova del lungo cammino in quei momenti in cui la fatica si faceva sentire.
Oggetto di un approfondimento da parte della Accademia della Crusca in un saggio di Ornella Castellani Polidori, le considerazioni in merito si ampliano ad altre tradizioni aggiungendo al tema della debolezza delle gambe quello del’ venir meno delle forze nell’ora ultima’. Infatti da alcune credenze della cultura popolare siciliana emerge la figura di San Giacomo che si presenta nel momento stremo della vita per prendere l’ anima per condurla in cielo. Consideriamo anche che in alcune espressioni dialettali si riscontrano derivati dal tema ‘giacomo ‘, e la loro ricostruzione etimologica ha portato altri studiosi ad altri ampi richiami . Uno di questi si è creato intorno all’espressione ‘ la buca della giacoma ‘ presente in molti paesi della provincia modenese. Così viene definito un avvallamento situato tra i monti che guarda verso la direzione sud-occidentale e quindi ancora si presenta come richiamo rivolto a San Giacomo di Compostela.
Per quanto sia meno convincente è da citare l’ipotesi di più di un ricercatore che il detto derivi da quel rumore creato dallo strascicamento dei piedi, ritrovandolo nell’onomatopeico ‘ giach , giach ‘.
Cercando la frase riportata in letteratura si possono citare anche autori di rilievo. Nel grande dizionario della Lingua Italiana Utet vengono indicati gli autori Lalli , Moniglia, Gamerra, Collodi, Nieri e Bacchelli, che fanno uso di questa espressione proprio e solo nel significato della condizione di un momento di grane fatica . Di questi il più interessante è Giovanni Andrea Moniglia, ( 1624 - 1700 ) un autore fiorentino che nelle sue’ Prose Fiorentine ‘così dice : Uhimè le gambe mi fann’iacomo iacomo. Ho ‘l sudore, l’ansima e ‘l batticuore. Questo scrittore che era anche il medico del cardinale Giovanni Carlo de’ Medici e del granduca Cosimo III, come Accademico della Crusca fu un personaggio molto presente sulla scena letteraria del momento. Fra le sue opere la figura del pellegrino é più volte presente, soprattutto nell’opera musicale dal titolo omonimo.
Nato a Livorno e morto a Vicenza Giovanni De Gamerra ( 1743 – 1803 ) fu un poeta che dopo aver lasciato la sua veste di abate di dedicò a comporre per il teatro. La sua citazione è: Mi pongo instrada e men vo di trotto, benchè mi faccian giacomo giacomo i ginocchi.
Cercando di risalire nella storia letteraria la testimonianza più lontana l’abbiamo nella divertente opera di Giovanbattista Lalli ( 1572 - 1637 ) da Norcia ‘ L’Eneide Travestita’ del 1623 .
Il poeta che fu anche giurista impegnato presso i Farnese e poi governatore di piccole città dello Stato pontificio, ha lasciato molte opere che ricalcano il mondo classico. Dalla simulazione eroicomica dell’Eneide di Virgilio, troviamo la sua divertente citazione:
213 Ma ne l’andar, le gambe indebolite,
facean Iacomo Iacomo ogni passo;
ond’ei fiaccò, le forze disunite
fecer cader senza colpir quel sasso
tutte le prove sue gli escon fallite
la sua solita forza è andata a spasso
gli si raffredda il sangue entro le vene
e in somma in somma non si sente bene.
Dalla tradizione francese emerge invece la parola jaco , un uso popolare di jacque ( giacca), e al tempo stesso la storia di un contadino che nel 1338 fu a capo di una rivolta contro i proprietari terrieri a nord di Parigi. Si chiamava Guillaume Caillet , ma venne soprannominato Jacques Bonhomme in considerazione delle giacche sottili che i rivoltosi avevano come unica armatura. Questa rivolta e le, successive rivolte contadine, verranno chiamate jacquerie. In questo caso quindi la frase presenta un situazione di paura piuttosto che una invocazione.
di Lucia Mazzucco
E’ facile capire il perchè sulle strade di pellegrinaggio della Spagna a più di un pellegrino sia tornato in mente il detto ‘le gambe fanno giacomo giacomo ‘.
Questa espressione popolare è diffusa in tutta Italia e si riferisce a quando per la stanchezza, prevalentemente generata da un lungo cammino , le gambe perdono la loro tenuta togliendo la sicurezza di poter reggersi in piedi.
Nel dizionario etimologico italiano, il DEI, l’origine di questo modo di dire è stato infatti attribuito a quella esperienza vissuta dai pellegrini sul Cammino di Santiago, nato quasi da una invocazione al santo nel sostenere la prova del lungo cammino in quei momenti in cui la fatica si faceva sentire.
Oggetto di un approfondimento da parte della Accademia della Crusca in un saggio di Ornella Castellani Polidori, le considerazioni in merito si ampliano ad altre tradizioni aggiungendo al tema della debolezza delle gambe quello del’ venir meno delle forze nell’ora ultima’. Infatti da alcune credenze della cultura popolare siciliana emerge la figura di San Giacomo che si presenta nel momento stremo della vita per prendere l’ anima per condurla in cielo. Consideriamo anche che in alcune espressioni dialettali si riscontrano derivati dal tema ‘giacomo ‘, e la loro ricostruzione etimologica ha portato altri studiosi ad altri ampi richiami . Uno di questi si è creato intorno all’espressione ‘ la buca della giacoma ‘ presente in molti paesi della provincia modenese. Così viene definito un avvallamento situato tra i monti che guarda verso la direzione sud-occidentale e quindi ancora si presenta come richiamo rivolto a San Giacomo di Compostela.
Per quanto sia meno convincente è da citare l’ipotesi di più di un ricercatore che il detto derivi da quel rumore creato dallo strascicamento dei piedi, ritrovandolo nell’onomatopeico ‘ giach , giach ‘.
Cercando la frase riportata in letteratura si possono citare anche autori di rilievo. Nel grande dizionario della Lingua Italiana Utet vengono indicati gli autori Lalli , Moniglia, Gamerra, Collodi, Nieri e Bacchelli, che fanno uso di questa espressione proprio e solo nel significato della condizione di un momento di grane fatica . Di questi il più interessante è Giovanni Andrea Moniglia, ( 1624 - 1700 ) un autore fiorentino che nelle sue’ Prose Fiorentine ‘così dice : Uhimè le gambe mi fann’iacomo iacomo. Ho ‘l sudore, l’ansima e ‘l batticuore. Questo scrittore che era anche il medico del cardinale Giovanni Carlo de’ Medici e del granduca Cosimo III, come Accademico della Crusca fu un personaggio molto presente sulla scena letteraria del momento. Fra le sue opere la figura del pellegrino é più volte presente, soprattutto nell’opera musicale dal titolo omonimo.
Nato a Livorno e morto a Vicenza Giovanni De Gamerra ( 1743 – 1803 ) fu un poeta che dopo aver lasciato la sua veste di abate di dedicò a comporre per il teatro. La sua citazione è: Mi pongo instrada e men vo di trotto, benchè mi faccian giacomo giacomo i ginocchi.
Cercando di risalire nella storia letteraria la testimonianza più lontana l’abbiamo nella divertente opera di Giovanbattista Lalli ( 1572 - 1637 ) da Norcia ‘ L’Eneide Travestita’ del 1623 .
Il poeta che fu anche giurista impegnato presso i Farnese e poi governatore di piccole città dello Stato pontificio, ha lasciato molte opere che ricalcano il mondo classico. Dalla simulazione eroicomica dell’Eneide di Virgilio, troviamo la sua divertente citazione:
213 Ma ne l’andar, le gambe indebolite,
facean Iacomo Iacomo ogni passo;
ond’ei fiaccò, le forze disunite
fecer cader senza colpir quel sasso
tutte le prove sue gli escon fallite
la sua solita forza è andata a spasso
gli si raffredda il sangue entro le vene
e in somma in somma non si sente bene.
Dalla tradizione francese emerge invece la parola jaco , un uso popolare di jacque ( giacca), e al tempo stesso la storia di un contadino che nel 1338 fu a capo di una rivolta contro i proprietari terrieri a nord di Parigi. Si chiamava Guillaume Caillet , ma venne soprannominato Jacques Bonhomme in considerazione delle giacche sottili che i rivoltosi avevano come unica armatura. Questa rivolta e le, successive rivolte contadine, verranno chiamate jacquerie. In questo caso quindi la frase presenta un situazione di paura piuttosto che una invocazione.
Dali’ e le sue
stampelle
di Daniela Mazzetti
Dalì, nato nel 1904 a Figueras in Catalogna e' uno dei massimi esponenti del Surrealismo.
Negli anni di maggior maturità artistica, gli anni '30, dipinge nei suoi quadri un elemento particolare... la gruccia, o stampella come vogliamo chiamarla ...per esempio nei quadri "L' enigma di Guglielmo", "Lo spettro del sex-appeal", "Giraffa in fiamme" e "Il sonno".L' artista attribuiva alla stampella il compito di reggere e sorreggere metaforicamente l' uomo, l' animale, la società.
"Le stampelle del reale" come amava definirle lui.... quella linea diretta a terra che collegava Inconscio e Conscio.... quel qualcosa che sorreggeva l' esistenza precaria e debole dell' essere umano, una passione, un affetto una meta da raggiungere, uno scopo, che lo tenesse in equilibrio nella vita.Dalì era spagnolo e come tutti noi sappiamo la Spagna e' da sempre crocevia di pellegrini.....Curioso che lo stemma dei pellegrini che abbiamo visto alla Pieve di Talciona sia anch' essa una stampella.
La bellezza di un simbolo!
di Daniela Mazzetti
Dalì, nato nel 1904 a Figueras in Catalogna e' uno dei massimi esponenti del Surrealismo.
Negli anni di maggior maturità artistica, gli anni '30, dipinge nei suoi quadri un elemento particolare... la gruccia, o stampella come vogliamo chiamarla ...per esempio nei quadri "L' enigma di Guglielmo", "Lo spettro del sex-appeal", "Giraffa in fiamme" e "Il sonno".L' artista attribuiva alla stampella il compito di reggere e sorreggere metaforicamente l' uomo, l' animale, la società.
"Le stampelle del reale" come amava definirle lui.... quella linea diretta a terra che collegava Inconscio e Conscio.... quel qualcosa che sorreggeva l' esistenza precaria e debole dell' essere umano, una passione, un affetto una meta da raggiungere, uno scopo, che lo tenesse in equilibrio nella vita.Dalì era spagnolo e come tutti noi sappiamo la Spagna e' da sempre crocevia di pellegrini.....Curioso che lo stemma dei pellegrini che abbiamo visto alla Pieve di Talciona sia anch' essa una stampella.
La bellezza di un simbolo!
Il
Cammino Reale
di Tiziana
Cafaggi e Paolo Beatini
Il
6 novembre 2010 iniziò un cammino che avevamo tanto desiderato.
Ollantaytambo
– Wayllabamba
La
nostra guida arrivò al mattino e ci invitò
a masticare delle foglie di coca offrendole alla madre terra “
Pachamama”con una ritualità complicata che, insieme al matè di Jerba Buena sarebbero serviti per mitigare il senso di
nausea che ci aveva colpito al risveglio. Il rito si rivelò efficace. Insieme a
lui fummo presi in consegna dalla guide del parco, che più che guide erano
sorveglianti del nostro comportamento nei confronti dei numerosi divieti a
salvaguardia dei siti. Raggiungemmo in pulmino il km 82 della vecchia ferrovia,
punto di partenza di questo trekking nella Riserva Naturale di Machu Picchu.
Abbiamo attraversato su un robusto ponte il Rio Urubamba e il percorso di 12
km ci portò all’accampamento di
Wayllabamba in 5 ore raggiungendo con fatica i 3000 metri.
I
nostri portatori allestirono le tende e una buonissima cena mentre noi
approfittammo di un gelido ruscello per un bagno completo snobbando le
bacinelline di acqua calda e sapone che
ci venivano offerte. La fatica ci fece addormentare con facilità in un silenzio
totale, sotto un cielo stellato come non avevamo mai visto, mentre ripensavamo
alle meraviglie viste in quella prima giornata , a quella jungla rigogliosa e
ricca incontrata ad una altezza dove da noi ci sono solo detriti e rocce.
Wayllabamba
– Pacaymayo
Dopo
una nutriente colazione al campo, abbiamo risalito un tratto assai impegnativo
fino al passo Abra de Warmi Wanusca, a 4198 metri, il punto più alto del
cammino Inca. Da un Mirador abbiamo potuto osservare le cime innevate della Cordillera Vilcanota e
Vilcabamba di 7000metri circa.
Scendemmo
verso la valle Pacaymayo a 3400 metri su un sentiero di mensoloni secolari,
paurosamente esposti, ma circondati da fiori, farfalle, coleotteri colorati e
cervi mulo che ci osservavano curiosi, e decine di colibrì coloratissimi che ci
volavano attorno per raggiungere il cuore di stupende corolle. In questi tratto
siamo stati presi dalla pioggia e da una finissima grandine, ma per effetto
dell’aria secca e rarefatta ci bagnammo appena.
La
sosta per il pranzo fu nel momento peggiore
e trovammo riparo in una parte vietata perché non programmata in
anticipo :80 dollari di multa.All’arrivo
a Pacaymayo, dopo 11 hm in 7 ore di cammino, abbiamo trovato
l’accampamento pronto grazie ai portatori che ci precedevano e allestivano le
tende per dormire e la tenda grande con la cucina e la sala mensa.
Queste
persone di piccola statura ma con amplissimi toraci trasportavano con una
semplice cinghia frontale tutta l’attrezzatura per montare un campo completo di
tutto, sedie tavoli cucina da campo , combustibile, tende, cibarie camminando a
fortissima andatura calzando “sandalia” fatti con strisce di copertone d’auto,
un carico di circa 60 kg a testa.
Pacayma
– Winay Wayna
Il
cammino prosegui verso l’importante monumento archeologico di Runcuracay, anche
grande centro cerimoniale, poi iniziammo a salire verso il passo Qochapata a
3950 metri e da li scendendo incontrammo i gruppi archeologici Sayaqmarka e
Chaquiqocha.
Oltrepassata
in discesa una strettissima galleria scavata nella roccia dagli Incas per
evitare un tratto paurosamente verticale, risalimmo verso il passo
Payupatamarka a 3650 metri dove sorge il sito omonimo. Infine con una salita di
700 metri e una discesa di 1330 con le gambe indolenzite per la grande quantità
di gradini sconnessi si raggiunse il
nostro campo a Winay Wayna nella valle del Rio Urubamba . Sul posto, 2650 metri
, vedemmo le rovine di un antico grande
centro agricolo .
Winay
Wayna – Machu Picchu
L’ultimo
giorno iniziò alle quattro del mattino con la prima colazione alla luce delle
candele e delle lampade frontali . Volevamo arrivare alla mitica Porta del Sole
quando questo sorge per godere dall’alto la vista della nostra meta: Machu
Picchu. Dopo una fredda e fitta nebbia
trovammo pioggia ,freddo e sconforto.
Scendemmo
convinti di non riuscire a vedere nulla, quando a metà percorso si aprì il si
pario delle nubi e attraverso cortine di fittissima foschia, molto
scenografica, potemmo ammirare quello che ci era costato tanta fatica.
Machu
Picchu è circondato da montagne strette e affilate come lame, coperte di fitta
vegetazione e composte per la massima parte di quarzo bianco che genera un
fortissimo magnetismo tale da far impazzire tutte le bussole. Le ultime scene delle nostre riprese video
furono così cancellate e anche una memory card che poi fu recuperata con un apposito programma.
La
città si sviluppa a 2400 metri sulla cima spianata della montagna sovrastata da
un acuminato picco, mostrando in bell’ordine le costruzioni che formano
l’abitato e la razionale urbanizzazione ancora intatta, malgrado i terremoti,
le intemperie e i turisti.
Tutti
i fabbricati sono costruiti con la tipica pietra del luogo e i conci sono
assemblati a secco in modo così preciso da non permettere fra loro il passaggio
neppure di un foglio di carta. Le emozioni sono
state tante perché ogni angolo, tempio o casa sembravano stati lasciati
il giorno prima e le immagini della vita di quel posto ci furono chiare, anche
aiutati da qualche indio e da qualche lama vagabondo che girellavano li
intorno.
Fu
curioso vedere alcuni personaggi seduti in posizione ieratica dentro le nicchie
che servivano da stipo nelle case, o in meditazione nella posizione della gru,
ritti su un piede solo , nelle vicinanze di un altare.
Il
cammino finì Machu Picchu Pueblo per poi
arrivare all’ hotel di Aguas Calientes .
Il
paese era animato da un alto numero di turisti e da peruviani che si
avvicendavano per non far mancare nulla ai loro ospiti, in una cacofonia devi si fondevano voci umane e strida di
pappagalli verdi che, in infinite processioni volanti, andavano avanti e
indietro nella Jungla al di là del Rio Urubamba. A questo si aggiungeva lo
strepito del trenino e della sua campana, quel trenini che il giorno dopo ci
portò di nuovo a Ollantaytambo per
proseguire la nostra visita del Perù.
Ricordiamo
ancora quasi tutte le sensazioni e le emozioni di quei giorni, anche se è
passato del tempo, e ci rimarranno nel cuore.
Avevamo
visitato nei giorni precedenti isole, altipiani, ghiacciai, vulcani e città,
ma…
il
Cammino è il Cammino
la foto di Guido
Nebbia sulla piana fiorentina dall'Incontro sopra Rosano novembre 2013
Don Chisciotte incontra i pellegrini
Don Chisciotte è il protagonista assoluto sia delle avventure reali che di quelle fantastiche raccontato da Miguel de Cervantes nei primi anni del 16oo .
Molti sono gli artisti che hanno voluto interpretare nel loro ambito questo personaggio Gustave Dorè , l’incisore francese nel 1863 crea una delle sue opere maggiori con una serie di scene che presentano alcuni avvenimenti caratterizzanti la storia.
In una di queste incisioni è ben individuabile un corteo di pellegrini che offre a Don Chisciotte una delle sue occasioni d’impresa.
Richard Strauss nel 1867 scrive il poema sinfonico Don Chisciotte( op. 35 ) che fra le molte versioni musicali di questo racconto occupa il posto dell’eccellenza.
Composto da dieci variazioni è un lavoro con un organico molto impegnativo e ricco che può tradurre ed esprimere il clima fantastico e tragicomico del soggetto.
Nella variazione numero nove con un effetto esposto da flauti clarinetti e corni è il passo in cui vediamo avanzare il gruppo pellegrini ma , secondo il gioco dell’eccezionale indole del nostro eroe, essi verranno visti come briganti.
Molti sono gli artisti che hanno voluto interpretare nel loro ambito questo personaggio Gustave Dorè , l’incisore francese nel 1863 crea una delle sue opere maggiori con una serie di scene che presentano alcuni avvenimenti caratterizzanti la storia.
In una di queste incisioni è ben individuabile un corteo di pellegrini che offre a Don Chisciotte una delle sue occasioni d’impresa.
Richard Strauss nel 1867 scrive il poema sinfonico Don Chisciotte( op. 35 ) che fra le molte versioni musicali di questo racconto occupa il posto dell’eccellenza.
Composto da dieci variazioni è un lavoro con un organico molto impegnativo e ricco che può tradurre ed esprimere il clima fantastico e tragicomico del soggetto.
Nella variazione numero nove con un effetto esposto da flauti clarinetti e corni è il passo in cui vediamo avanzare il gruppo pellegrini ma , secondo il gioco dell’eccezionale indole del nostro eroe, essi verranno visti come briganti.