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Cronache di Cammini n° 2 - ottobre 2012

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in questo numero:
Sorella strada, Fratello Cammino. Editoriale
Santa Lucia de'Magnoli e San Gallo di Lucia Mazzucco
Da  "I Promessi Sposi" di A.Manzoni
Valpromaro 15 giugno 2012 di Loredana Falcinelli
Badia a Settimo di Vera Biagioni
Scelta o destino di Giorgio Zambaldi
In nome di San Colombano di Luciano Mazzucco
I giainisti di Alida Vanni
La foto di Guido


di seguito puoi scaricare in formato .pdf il NUMERO COMPLETO 

cronache_di_cammini_n°_2_ottobre_2012.pdf
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Santa Lucia de' Magnoli e San Gallo

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 La Chiesa di Santa Lucia de’ Magnoli si trova a Firenze in via de'Bardi. 
  Era stata fondata nel 1078 dal  Cavalier Uguccione Della Pressa, che in quel punto del fiume Arno aveva dei mulini. 
 Il nome viene dal figlio Magnolo  che continuò la costruzione e  ne segui l’amministrazione. E’ una delle chiese più antiche della città e si trova in una zona che a quel tempo era particolarmente misera e sporca tanto da avere l’appellativo di
Borgo Pitiglioso. In un punto dove adesso c’è un giardino si trovava nell’anno 1211 un piccolo ospitale per pellegrini. 
Un tabernacolo posto di fronte alla facciata della chiesa ricorda che in quell’ospitale si fermò Francesco, per la sua prima visita a Firenze. Il tabernacolo è stato posto su un muro che chiude e protegge quel terreno, con una delibera del Comitato per l’Estetica cittadina nel 1956. La terracotta del tabernacolo è opera dello scultore Prosperi d’Assisi e la lapide sottostante  porta questa dicitura: QUI GIUNSE NEL 1211 PER LA PRIMA VOLTA 
A FIRENZE SAN FRANCESCO D’ASSISI. L'ospedale era gestito dalla congregazione ecclesiastica di Cluny, ma non ebbe lunga vita perché il terreno
collinare retrostante era franoso come dimostra una lapide marmorea del 1565,  posta più avanti, che espone un divieto fatto da Cosimo I de’ Medici di
costruire su quel  terreno che  aveva ripetutamente fatto franare molte case. Infatti anche la chiesa è stata anche chiamata Santa Lucia fra le Rovine. 
Non ci sono notizie certe che l’ospitale sia stato anche il luogo d’incontro  di Francesco con Giovanni Parenti, uno dei primi seguaci fiorentini del poverello d’Assisi che diventò  in seguito il fondatore in Spagna, a Saragozza, il primo convento dell’ordine. Sarà anche il primo successore del santo.    
A lui  viene attribuita l’opera alledorica : "Sacrum commercium sancti Francisci cum domina Paupertate" (Le mistiche nozze di  san Francesco con madonna Povertà). Ma si adoperò molto perché il rispetto della  regola francescana non portasse a dissidi interni e ottenne da Gregorio IX  nel 1230 la bolla‘ Quo elongati’.
San Francesco arrivò a Firenze passando da Cortona, Arezzo, Ganghereto, San Giovanni e Figline Valdarno e attraversando il ponte della via Cassia sull’Arno.
L’itinerario è segnato da leggende e da documenti biografici. Dagli Annales minorum  di Lucas Wadding (edito dai Frati minori di Quaracchi  nel  1934)
 Abbiamo questa testimonianza:" anno 1211 Beatus Franciscus pervenit Florentiam, ubi extra civitatem accepit a devotis civibus hospitiolum jiuxta aedem Sancti Galli, ubi multos ad suum sodalitium admisit, quorum praecipuus fuit Johannes Parens ex oppido Carmignani."
  Il testo dimostra che operò nell’ospizio di San Gallo e non nomina l’altro ospizio che si trovava all’altro capo della città. Ma poiché la tappa successiva del santo fu Prato e Pistoia ( la città ha una targa commemorativa del suo passaggio ) è probabile che  ci siano state  soste in ambedue gli  ospedali.  Dell’ospitale di San
Gallo non sono rimaste  altre  menzioni; nella Chiesa di Santa Lucia de’ Magnoli rimane anche la celebrazione  in cui Domenico Veneziano  ricorda
San Francesco in una pala eseguita nel 1445, oggi conservata agli Uffizi. La  pala rappresenta la Madonna al centro con ai leti San Francesco, San Giovanni
,San Zanobi e Santa Lucia. La predella di questa pala oggi è divisa nei  musei di Washington, Berlino e  Cambridge, la parte che rappresenta il miracolo della stimmate di San Francesco  si trova a Washington.

Lucia Mazzucco

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Valpromaro 15 giugno 2012

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di Loredana Francinelli
 
Li sto aspettando, sono le 17.30 circa, hanno avvisato del loro  arrivo, ma quando sento gli zoccoli di  Ottavio  ( l’asino
pellegrino) il cuore sobbalza!
 Mi affaccio alla finestra,  mi sembra di assistere alla scena  di un film.
La famiglia Cortes è condotta da  Edouard che cammina  davanti al carretto tenendo le redini di Ottavio.
Nel carretto ci sono: Giovanna 3 anni, Maria 2 anni e Emmanuelle 8 mesi .
Dietro al carretto cammina Mathilde. La mia vita a Valpromaro come ospitalera è una perla nel cammino della mia vita!
Quella  sera l’ostello in un attimo da vuoto si è riempito , Ottavio in giardino , il carretto davanti alla porta, le bimbe che giocavano,  Mathilde che allatta Emmanuelle, Edouard che  gestisce Ottavio, i panni  stesi. Quanta vita hanno portato con la loro famiglia!
Valpromaro  è un piccolo paese sulla Via Francigena, gli abitanti sono abituati a vedere il passaggio dei pellegrini e qualche  volta anche con gli asini…
 Per i bimbi di Valpromaro  è festa!  Giocano con Ottavio e la gente si ferma a guardare quella scena.
La famiglia Cortes è partita a metà marzo da le Puy en Velay  passando per il Monginevro,  con il progetto di percorrere 1400 km per arrivare a Roma.
 Al loro arrivo nella nostra accoglienza mi consegnano una statuetta della madonna che  durante il cammino sta avvitata sulla sella di Ottavio; ogni sera la porgono a chi li ospita in segno di benedizione.
Oltre a loro questa sera nella casa ci sono altri 2 pellegrini, Paolo e Maria, marito e moglie in pensione che sono partiti dalla Francia dove  vivono per andare a Roma ; per quanto  il loro sogno sarebbe di arrivare in Sicilia che è la loro terra di origine (ci  arriverranno).
Ci sono anche i genitori di Edouard e una coppia di amici che li  hanno raggiunti per camminare una settimana con loro. E cosi ci ritroviamo tutti
attorno al tavolo mentre le bimbe sono a dormire; io sento un emozione fortissima  ringrazio di essere li in quel momento … 
Si fa buio il tavolo è illuminato dalla loro lampada a petrolio io sto parlando da un po’ con Mathilde, di loro …. di me …. lei ha una luce … ci
accorgiamo di tenerci per mano … di vivere la stessa emozione … e io non posso fare a meno di chiedere a Mathilde:” Perché il mondo non capisce che ci vuole
cosi poco?”
La notte non riuscirò a dormire  per le troppe emozioni.
Alla mattina successiva salutiamo Paolo e Maria che partono presto,  poi mi trattengo  con Edouard che prepara Ottavio. Parliamo e lui mi dice che stanno realizzando il loro sogno ma che è duro. Poi aiuto Mathilde tenendo in braccio Emmanuelle mentre lei prepara tutto il necessario per i bambini.
Don Renzo passa a salutarli, e arriva il momento di lasciarci. Mi chiedono se dico una preghiera con loro così, intorno al carretto con il paese attorno che ci guarda, preghiamo.
Li guardo come guardo ogni pellegrino che se ne va fino a quando  scompaiono … non li vedo più …   ma sento gli zoccoli di Ottavio.


Scelta o destino

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In questo periodo si parla molto  di geni.
Quello che si dice è quasi sempre corretto. I geni sono determinanti sul nostro destino. Se una persona nasce con un determinato quadro genetico avrà l’emofilia e il destino segnato da questa malattia. 
Se l’informazione sui geni è quasi sempre corretta, spesso è parziale. Infatti non si dice in modo sufficientemente chiaro che noi possiamo interferire con la espressione di alcuni geni che possiamo ritrovare nel nostro patrimonio.
 Esempio: se una persona nasce in una famiglia di diabetici, può essere portatore di geni che lo portano verso questa malattia. In questo caso, a differenza di quanto succede al soggetto che nasce con i geni della emofilia, il soggetto in questione non è  costretto ad abbandonarsi al proprio destino. Se infatti sceglie di alimentarsi in un modo corretto, fa una attività fisica intensa e riduce il peso corporeo in eccesso, interferisce con la espressione dei geni che lo portano verso il diabete rallentandone o bloccandone la espressione.
Quindi questo soggetto può  scegliere se abbandonarsi a un destino che sente ineluttabile o scegliere di  modificarlo secondo i propri interessi.
 Tutto chiaro fin qui. Ma cosa c’entrano questi discorsi in un giornale in cui si parla di cammini?
C’entrano perché una delle armi più potenti che abbiamo a disposizione per contrastare la  espressione di molti geni che ci portano verso malattie è l’attività fisica e, fra le attività fisiche, il camminare è una delle più utili e, per molti, delle più piacevoli. Ed è importante che l’attività fisica sia piacevole perché solo
 in questa condizione avremo molte probabilità di proseguirla.
A me è sempre piaciuta molto l’idea che, almeno in parte, posso fare delle scelte per il mio futuro.
E allora : buone scelte e buone camminate.

 Giorgio Zambaldi

I GIAINISTI

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 “Se Dio è morto in Occidente, in India ha  ancora mille indirizzi” dice Tiziano Terzani nel suo libro “In Asia” e continua
“Non c’è posto in cui non ci s’imbatta in fedeli di una qualche religione, di  una delle tante manifestazioni della stessa divinità, in folle di pellegrini che a piedi o in bicicletta, in autobus o in portantina, non vadano verso qualche luogo di devozione.
Ecco che di nuovo spunta dal cassettino dei ricordi un’altra nuvoletta del mio viaggio in India dove tra tanti templi e  luoghi di culto si distingue un piccolo paese il cui nome non si trova sulle guide turistiche: Sonagiri. 
Anche su internet si trovano solo poche informazioni in inglese.“Sonagiri è uno dei luoghi di  pellegrinaggio più importanti per i giainisti Digambar.” “Sonagiri è uno dei siti più popolari che vedono un enorme traffico di  turisti  ogni anno.”
 “Migliaia di pellegrini giainisti arrivano ​​a questo sito per rendere omaggio ai santi ascetici.”
  Io ricordo un piccolo paese immerso nel silenzio. Ma la nostra guida indù per tutto il viaggio ha avuto cura di  portarci sempre in luoghi eccezionali perciò cerco sul web qualcosa sul Giainismo per riaccendere le tracce lasciate da quel pomeriggio.
Mi perdo in un elenco di concetti e principi che in qualcosa ricordano il Buddismo ma in gran parte sottolineano la particolarità di questa  che, coi suoi 8-10 milioni di fedeli, è una delle più piccole fra le maggiori religioni mondiali.
In realtà nei miei ricordi di quella giornata hanno preso spazio cose più semplici, più immediate.
La prima: la lontananza. Ricordo le ore di viaggio necessarie per raggiungere la collina in cui sorgono i templi, lungo una strada più che  secondaria, in mezzo al nulla, così mi viene da chiedermi: “Ci sarà differenza?”  “Cambia l’intensità con cui un pellegrino si appresta a raggiungere un posto se questo è vicino è se invece è difficilmente raggiun-gibile?” Pensieri da giocatrice di calcetto che ama correre e sudare e  che chissà se imparerà mai a comprendere l’intensità e la profondità del  camminare.
Scesi dal pulmino ci dirigiamo ignorati dagli abitanti del paese verso la zona dei templi, ma poco prima di entrare un giovane indiano vestito  all’Occidentale ci ferma dicendoci che dobbiamo farci accompa-gnare. Si offre come guida e come “amico”. 
Come in tutti i templi Giainisti oltre alle scarpe anche qui bisogna togliere i calzini. Abbiamo dei copri-scarpe di plastica, di quelli che  usano i chirurghi nelle sale operatorie. La guida ci dà l’ok per indossarli ma  con un po’ di perplessità.
Ci apprestiamo così a risalire la collina tempestata di templi e tempietti. Io dopo solo  due passi  mi fermo e decido di togliere il copri-piede; il contatto della pelle con la  plastica è tremendo mentre camminare scalza è meraviglioso. Il pavimento di piastrelle, in cui spiccano qua e là frasi con  preghiere e brani degli scritti sacri, è naturalmente pulitissimo ma purtroppo scotta! Così mi ritrovo a trotterellare alla ricerca di qualche spazio coperto dall’ombra, saltellando e correndo veloce come un bimbo da una piastrella all’altra.
I templi si trovano sparsi tutti su una collina. Risaliamo seguendo la guida che cammina lentamente mentre in inglese ci spiega la storia di questo sito.
 La prima cosa che mi colpisce sono i colori accesi con cui sono definiti i particolari dei primi edifici, resi ancora più dolci dai raggi del sole che, essendo pomeriggio inoltrato, scivolano giù obliqui in modo pacifico e delicato. Il giallo, l’arancione, il verde, il blu: ricordano le case di paesini delle isole greche. 
Il giovane giainista laico ci spiega che i templi sono tutti del  9° e 10° secolo ma sembrano così recenti perché ogni anno la parte esterna viene
ridipinta di bianco.
Questo colore simbolo di purezza e la forma della parte superiore di ogni tempio (che non posso fare a meno di paragonare a uno spumino) mi fanno
ripensare agli stupa buddisti della valle di Kathmandu. Uno in particolare spicca sugli altri per la forma a fiore di loto.
 Arrivati a metà della collina possiamo finalmente ammirare gran parte del complesso dei 84 tempi che caratterizzano il sito. Su tutti si può
osservare la bandiera gialla che simboleggia l’appartenenza al  Giainismo.
Mentre proseguiamo nella lenta ascesa verso la cima della collina la nostra guida continua in inglese a spiegarci i principi della sua fede. 
Le poche cose che comprendo (i Giainisti non hanno dei, credono nel karma, recitano sutra e mantra) alimentano la mia convinzione che ci siano
molte vicinanze con il Buddismo ma subito vengo smentita dal giovane credente laico che sottolinea che si tratta di due religioni completamente differenti.
 In modo semplice introduce i principi su cui si basano tutte le sue azioni utilizzando le lettere JAIN come acronimo: Justice, Affection,  Introspection, Non violence. Intanto arriviamo a una grande statua seduta come un Budda. 
Ma non è un Budda, anche se a me sembra uguale, non riesco proprio a vedere quelle differenze che, sono invece così evidenti non solo ai
Giainisti ma anche a musulmani e indù. A quanto pare i miei occhi occidentali  sono ancora troppo chiusi.
Mi avvicino comunque per farmi fare una foto da sola davanti alla statua del XXX che non ho ancora capito chi è; la guida si raccomanda di non  toccarla!
 E nonostante la sua tranquilla non-violenta raccomanda-zione rimane immobile a controllare ogni nostro minimo movimento e gesto finché non ci
allontaniamo dal quadrato. Nonostante il silenzio, la calma e la pulizia che regnano tutt’intorno e che rallentano il ritmo del cuore e dei pensieri,
il tempo scorre comunque indifferente e dobbiamo accelerare la nostra visita rinunciando a raggiungere la cima della collina e accontentarci di una breve
visita all’interno di un tempio con due grandi statue di bianchi elefanti sorridenti.
All’interno del tempio camminiamo seguendo il corridoio circolare in senso orario mentre la guida spiega come il lato destro rappresenti la parte
più nobile del nostro corpo. “Come per i buddisti?” vorrei domandare ma mi  trattengo. In fondo questo vale anche per gli indù.
 Al centro del tempio si trovano tantissime piccole e medie statuette di “simil-budda” e foto di monaci, così simili ai templi buddisti del
Laos e della Cambogia che manifestano ancora una volta la mia ignoranza e  cocciutaggine.
 La guida ci offre di terminare il nostro  giro visitando la dimora dei monaci giainisti che più di tutti possono testimoniare il modo di vivere quotidianamente gli insegnamenti e i principi di questa antica religione. Mentre ci accingiamo a ridiscendere verso l’entrata passa proprio un monaco: la guida ci chiede immediatamente di distogliere lo sguardo e girarci. Istintivamente obbedisco e mi volto dando le spalle al monaco che cammina in modo lento ma spedito e, secondo la tradizione giainista, completamente nudo. E’ questa forse la particolarità che più contraddistingue i monaci seguaci del Giainismo: vivono tutta a loro vita completamente nudi e non posseggono nulla se non uno “scopino” da passare su ogni superficie su cui si  apprestano a sedersi.
 Naturalmente non è comune vedere una persona completamente nuda, ci sentiamo un pò imbarazzati anche a se dover dare  le spalle a un monaco avrei preferito abbassare il capo e lo sguardo con le mani giunte al petto in segno di rispetto.
La guida ci spiega il loro modo di  osservare le rigorose pratiche ascetiche previste dagli stessi precetti seguiti  in modo meno rigido anche dai credenti laici. Ad esempio i monaci mangiano e  bevono una sola volta al giorno. Bevono una sola volta al giorno: me lo ripeto  perché devo mettere insieme questa informazione con il caldo che a noi sembra  insopportabile. La non-violenza poi non solo coinvolge l’essere rigorosamente  vegetariani ma prescrive ai monaci anche il fatto di pulire prima di sedersi o  indossare maschere su bocca e naso per evitare ogni possibilità di uccidere  anche minuscoli insetti.
 Un grande  rigore che dovrebbe offrire una grande riflessione, una delle tante che  si riportano da questi viaggi forse troppo ricchi e intensi.
 

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Da ' I Promessi Sposi

 Da ‘ I Promessi sposi ’

di Alessandro Manzoni

 Cap 8 
Subito, questo si mise in
testa un cappellaccio, sulle spalle un sanrocchino di tela incerata, sparso di
conchiglie; prese un bordone da pellegrino, disse: - andiamo da
bravi: zitti, e attenti agli ordini -, s'incamminò il primo, gli altri dietro;
e, in un momento, arrivarono alla casetta, per una strada opposta a quella per
cui se n'era allontanata la nostra brigatella, andando anch'essa alla sua
spedizione ….
  ………………………………………………………
 Ciò fatto, picchiò pian
piano, con intenzione di dirsi un pellegrinosmarrito, che chiedeva
ricovero, fino a giorno ………
…………………………………………………………

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ABBAZIA DEI SANTI SALVATORE E LORENZO A BADIA A SETTIMO

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 L’Abbazia dei Santi  Salvatore e Lorenzo, chiamata anche Badia a Settimo, è uno dei monumenti più
importanti del patrimonio nazionale. E’ situata nei pressi di Firenze, nel  comune di Scandicci, sulla riva sinistra del fiume Arno. L’Abbazia è composta da  una serie di edifici realizzati in varie epoche. Il nucleo più antico che risale  al X secolo, sorse su iniziativa della famiglia feudale dei conti Cadolingi, signori di Borgonuovo (l’odierna Fucecchio), in un luogo dove esisteva già una
  presenza monastica fin dalla tarda epoca longobarda, un tempo sede di un culto pagano. Badia a Settimo si trovava in un punto viario strategico interessato da vie di comunicazione che si collegavano alla Via Francigena. Badia a Settimo,  insieme ad altre abbazie di famiglia, svolse un ruolo importante per la  strutturazione della Via Francigena che divenne in seguito il percorso
  privilegiato per Roma. Nel 1004 il conte cadolingio Lotario introdusse i monaci  benedettini cluniacensi, di grande esperienza nell’attività  ospitaliera.. Il
conte Lotario dispose l’ampliamento dell’oratorio trasformandolo in monastero e  offrì alcuni possessi che consentirono una vita dignitosa ai religiosi. Secondo
la regola il monastero era molto attento ai poveri e ai pellegrini dando loro  ristoro ed un giaciglio Successivamente fu costruita la chiesa a croce latina e
ristrutturato il campanile che già esisteva come torre di vedetta e difesa e  che, probabilmente, fungeva anche da torre campanaria. Nel tempo, i possedimenti
del monastero si allargarono sempre di più e grazie a cospicue donazioni la  Badia entrò in possesso di territori che comprendevano quasi tutto l’Appennino,
dalla Futa al Giogo, nonché terreni verso la pianura. Anchel’Imperatore  Guglielmo II accordò ricchi privilegi. Con l’arrivo del vallombrosano Giovan
Gualberto, chiamato alla direzione del monastero, giunse un nuovo rigoroso  spirito riformista che si oppose alle dilaganti forme di simonia presenti nel
clero fiorentino (simonia: commercio di beni e titoli ecclesiastici, indulgenze,  assoluzione dei peccati, cariche ecclesiastiche). Solo dopo molti anni di
contrasti si giunse alla risoluzione definitiva conclusasi con la famosa “prova  del fuoco” del 13 febbraio 1068, una ordalia in cui la purezza dell’animo
sarebbe stata giudicata dalle fiamme. La prova decretò la sconfitta della  simonia e il vescovo Pietro Mezzabarba, dovette lasciare  Firenze.
Alla Badia, con la carica di procuratore prestò servizio ser Petracco di San Parenzo dell’Incisa, padre di  Francesco Petrarca.Verso la metà del XIII secolo papa Gregorio IX affidò la  Badia ai cistercensi provenienti da San Galgano di Siena. L’arrivo dei monaci  segnò una svolta nella vita del monastero. I cistercensi portarono quella attività vigorosa che era nella costituzione del loro ordine riaffermando i  punti fondamentali della regola di San Benedetto: preghiera e
lavoro.
Da Settimo essi diffusero in tutta l’area fiorentina la loro conoscenza in ogni campo del sapere e dell’attività umana. Promossero le arti e i mestieri, intrecciando importanti  legami religiosi ed economici con la Repubblica fiorentina e in ambito europeo.  A partire dal 1300 la badia aveva acquisito un grande prestigio e per secoli, da parte della Repubblica fiorentina, furono affidati ai monaci importanti  incarichi pubblici. Fondamentale fu l’opera dei monaci per la regimazione ed il
  controllo delle acque e del loro sfruttamento economico, per la bonifica e per  la coltivazione della piana, nonché per la forestazione di Monte Morello.
  Affidarono a terzi la coltivazione delle loro proprietà favorendo così  l’insediamento di numerose famiglie nel territorio.
Per quanto riguarda la parte architettonica, i monaci si dimostrarono molto rispettosi dei loro predecessori  non distruggendo nulla delle parti essenziali, ma solo trasformandole secondo le nuove esigenze. La chiesa a tre navate, tre absidi, tetto a capriate, è  stata più volte adattata dai monaci e porta i segni delle evoluzioni di tutti gli stili, romanico, gotico, rinascimentale, barocco, sia nelle strutture  interne e sia nella facciata. Oltre alla chiesa, altre importanti opere del
  complesso sono giunte fino a noi: la torre campanaria, Chiostro dei Melaranci,  Refettorio dell’Abate, Chiostro maggiore, la  Sala Capitolare, la
Grande Sala dei Conversi, il grande granaio, lo scrptorium  monastico, i resti della distrutta torre del Colombaione, la cappella di  S.Jacopo, la cappella di San Quintino, le fortificazioni che cingono il  complesso edificate in epoca tre-quattrocentesca. Molti di questi ambienti sono  impreziositi da opere pregiate di illustri artisti quali, il Ghirlandaio, il  Buffalmacco, Domenico Buti, scuola del Brunelleschi, e molti altri. Per quanto riguarda l’attività culturale i monaci si dedicarono allo studio e alla copia  dei codici, alla raccolta di testi liturgici, teologici, filosofici, ecc. che  costituirono la biblioteca divenuta poi famosa. Il complesso di Badia a Settimo  seppe affrontare invasioni, alluvioni e periodi difficili, ma dalla metà del XVI  secolo inizia un lento, inesorabile declino finché, nel 1783, il Granduca Pietro Leopoldo decretò la soppressione dell’ordine, l’allontanamento dei monaci, lo  smembramento in due proprietà del complesso e la vendita ai privati di quasi due  terzi del monastero e di tutte le terre. La parte occidentale fu trasformata in  fattoria mentre rimase in mano ecclesiastica l’altra parte del monastero dove fu  trasferita la sede e il titolo parrocchiale di San Salvatore e San  Lorenzo.
Nel settembre 2011 si è svolta  una importante iniziativa per la valorizzazione e promozione della Badia di San  Salvatore e San Lorenzo a Settimo: il Comune di Scandicci in collaborazione con  l’Arcidiocesi di Firenze, del Parroco, e di altri Enti, e grazie alla  disponibilità degli attuali proprietari, nei giorni 16 e 17 settembre, con  visita guidata, sono stati aperti al pubblico anche gli spazi privati un tempo  abitati dai monaci, esclusi soltanto gli ambienti in stato di grave degrado e pericolanti. All’iniziativa che ha suscitato grande interesse, hanno  partecipato migliaia di persone. 
Da diversi anni amministratori,  ecclesiastici, associazioni, si impegnano per riacquisire la parte privata del  monastero e procedere quindi al definitivo recupero di tutti gli ambienti e  delle zone adiacenti.. La speranza di tutti è che, in tempi non troppo lunghi,  questo progetto possa essere realizzato e che l’Abbazia torni ad essere un  centro operoso di conoscenza e di cultura, come lo fu in  passato.
Vera Biagioni


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