La meta
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Erice
Salita al Tempio di Afrodite |
Il desiderio di raggiungere un luogo, avere un obbiettivo e una meta, è un motore veramente potente capace di fornire a chi lo persegue capacità e risorse inaspettate.
E quando si realizza e si arriva alla meta, spesso increduli del successo, si presenta l’ultima prova da affrontare: l’ insieme delle emozioni colme di euforia assieme ad un inatteso smarrimento. Allora il pensiero si rivolge ai passi fatti, soprattutto ai momenti critici affrontati, ancora vivi in qualche emozione, e poi emergono le impronte segnate da incontri importanti che temiamo di perdere, che decidiamo di custodire fino a quando troveranno il loro spazio nella nostalgia. Lungo un cammino, che sia lungo o breve, importante o disinvolto, gli episodi di incontri e di esperienze mostrano al pellegrino valori sconosciuti che aprono la sua vista ad un raggio più ampio e portano a varcare una soglia più profonda. Anche piccoli fatti, indimenticabili alcuni, divertenti e sorprendenti altri, da raccontare o tenere nascosti come un piccolo segreto protetto e celato che riguarda emozioni, paure, vittorie e anche delusioni, tutto questo è il patrimonio di un cammino. Per questo i pellegrini sono sempre concordi nel ritenere che, qualunque e dovunque sia stata la meta, quella vera si riconosce nel cammino stesso. La meta è il cammino |
San Gallo
Un cantone della Svizzera, una antica porta ed una strada di Firenze, una chiesa nel cuore della città vecchia di Praga, la più piccola chiesa di Venezia, tutte portano il nome di San Gallo. E’ un santo poco conosciuto e poco frequentato dalla devozione, nonostante a lui siano dedicati questi luoghi importanti. In Svizzera la città di San Gallo, capitale dell’omonimo cantone, è stata uno dei primi luoghi che l ’Unesco ha individuato da proteggere come Patrimonio Culturale dell’Umanità proprio per la sua grande e venerabile abbazia che porta il nome del santo. La prima impronta di questo riconosciuto valore venne impressa nell’anno 612 dal monaco di nome Gallo proveniente dall’ Irlanda. Giunse insieme ad una piccola comunità itinerante sotto la guida del futuro fondatore di Bobbio, Colombano, in questa valle dello Steinack nei pressi di Arbon. Qui il monaco cadde ammalato e qui scelse di aver raggiunto la sua meta. La sua decisione non fu approvata e persino condannata dalla sua guida, che vide nella malattia una forma di cedimento nei confronti dell’impegno preso nella loro peregrinatio pro Christi.
Così Colombano proseguì per l’Italia e lo lasciò con l’imposizione di non celebrare più la messa. Con un lungo soggiorno in Arbon il monaco poté ristabilirsi e, assieme ad un compagno, risalì il fiume Steinack alla ricerca di un luogo dove vivere da eremita. Dalle tre biografie del santo scritte tra l’VIII e il IX secolo ‘Vita et miracula sancti Galli’ ei ‘Casu Sancti Galli di Eccheardo VI‘, l’episodio più saliente riguarda proprio il contrasto con Colombano. Si racconta che Gallo rispettò la penitenza imposta ma quando, come per miracolo, avvertì che la morte del maestro era vicina, inviò a Bobbio un messaggero per chiedere di essere perdonato. Dal maestro venne l’assoluzione insieme al dono del suo bastone: i resti di questo bastone si trovano oggi conservati in Baviera a Fussen e a Kempten.
La prima cella creata da Gallo fu un piccolo insediamento in legno con una recinzione, costruita, come racconta la leggenda, con l’aiuto di un orso al quale il santo aveva tolto una spina dal piede. L’orso è attualmente il simbolo della attuale città di San Gallo.
Attorno all’eremita si formò un piccola comunità di fedeli e alla sua morte, che avvenne fra il 630 e il 645, una modesta attività monacale continuò nel piccolo eremo. Per la nascita di una vera e propria chiesa si deve arrivare al 719. E’ la figura dell’abate Otmaro, secondo fonti storiche precise, che riprende l’opera creata da Gallo. L'abate Otmaro viene così considerato come un secondo fondatore dell’Abbazia anche perché sostituì l’antica regola irlandese con quella di san Benedetto. Eresse, sostenuto da cinquantatre monaci e da ricche donazioni, un monastero, un albergo per i poveri e uno speciale ospedale per i lebbrosi, esercitando con i suoi monaci la povertà, la pazienza, la beneficenza e lo spirito di sacrificio. All’inizio del nono secolo reggente dell’abate Gozberto comincia la storia di quella Abbazia che diventerà così importante sempre mantenendo il nome di San Gallo. Scavi effettuati nel 1964 sulla attuale struttura hanno rivelato che la chiesa nata con Gozberto aveva già un impianto basilicale ad arcate su colonne a tre navate con una copertura piana. La cripta era accessibile dalle due navate laterali, e la tomba del santo era posta nel coro, resa visibile da una finestrella nella parete occidentale. Nel X secolo attorno alla chiesa cominciò a formarsi un abitato che venne protetto da un muro di cinta persino provvisto di tredici torri. Con la regola benedettina legata all’obbligo della lettura nacque una scuola e lo scriptorium, dove i monaci si dedicarono all’arte della calligrafia e delle decorazioni, raccolsero e copiarono molti manoscritti che oggi sono la preziosità di importanti biblioteche. E così è nata la grande biblioteca dell’Abbazia di San Gallo che oggi è meta di tanti visitatori. Anche la struttura del monastero dal punto di vista architettonico fu oggetto di studio e diventò modello per i monasteri in tutto il continente.
La sua storia ricalca quella che riguarda Bobbio, le Abbazie diventarono centri operativi importanti protetti e sostenuti da possedimenti concessi dai potenti. Insieme alla cultura si diffuse la devozione rivolta ad un nome e, quello di San Gallo arrivò in Italia verso l’ottavo secolo, diffuso nella valle del Bormio da un abate proveniente dello Steinach.
A Firenze il culto del santo lo si ritrova in un luogo di assistenza e accoglienza dei pellegrini che fu fondato nel 1218 all’ingresso nord della città. Da questa piccola chiesa il nome di San Gallo passa anche alla Porta nord della città che lo conserva ancora oggi insieme alla strada che arriva al cuore della città. La chiesa e l’ospitale erano strutture modeste ma nel Quattrocento Lorenzo il Magnifico le volle proteggere e le onorò affidandole ad un architetto e scultore fiorentino, Giuliano Giamberti.
La nuova struttura fu di tale valore che da allora Giuliano per la sua opera venne conosciuto come Giuliano da San Gallo. Con l’assedio di Firenze di Carlo V il monastero fu sacrificato, raso al suolo e scompare la sua storia. Alcune opere vennero messe in salvo dagli Agostiniani che al tempo ne erano i rettori e furono trasportate nella chiesa di S. Jacopo tra i Fossi per ordine di papa Clemente VII. Vi erano fra queste la pala di Andrea del Sarto che rappresenta una Annunciazione che oggi si può ammirare alla Galleria Palatina di Firenze.
A Roma il nome di San Gallo arrivò sempre attraverso le opere di Giuliano assieme al fratello ed al nipote Antonio, col nome acquisito, nella fabbrica di San Pietro e nel chiostro di San Pietro in Vincoli. A Firenze una scultura che rappresenta San Giovanni Battista è opera di Francesco da San Gallo
Giorgio Vasari ne ‘Le vite ‘ è testimone di questo particolare battesimo che porta un umilissimo monaco irlandese nel grande mondo dell’arte rinascimentale.
Lucia Mazzucco
Un cantone della Svizzera, una antica porta ed una strada di Firenze, una chiesa nel cuore della città vecchia di Praga, la più piccola chiesa di Venezia, tutte portano il nome di San Gallo. E’ un santo poco conosciuto e poco frequentato dalla devozione, nonostante a lui siano dedicati questi luoghi importanti. In Svizzera la città di San Gallo, capitale dell’omonimo cantone, è stata uno dei primi luoghi che l ’Unesco ha individuato da proteggere come Patrimonio Culturale dell’Umanità proprio per la sua grande e venerabile abbazia che porta il nome del santo. La prima impronta di questo riconosciuto valore venne impressa nell’anno 612 dal monaco di nome Gallo proveniente dall’ Irlanda. Giunse insieme ad una piccola comunità itinerante sotto la guida del futuro fondatore di Bobbio, Colombano, in questa valle dello Steinack nei pressi di Arbon. Qui il monaco cadde ammalato e qui scelse di aver raggiunto la sua meta. La sua decisione non fu approvata e persino condannata dalla sua guida, che vide nella malattia una forma di cedimento nei confronti dell’impegno preso nella loro peregrinatio pro Christi.
Così Colombano proseguì per l’Italia e lo lasciò con l’imposizione di non celebrare più la messa. Con un lungo soggiorno in Arbon il monaco poté ristabilirsi e, assieme ad un compagno, risalì il fiume Steinack alla ricerca di un luogo dove vivere da eremita. Dalle tre biografie del santo scritte tra l’VIII e il IX secolo ‘Vita et miracula sancti Galli’ ei ‘Casu Sancti Galli di Eccheardo VI‘, l’episodio più saliente riguarda proprio il contrasto con Colombano. Si racconta che Gallo rispettò la penitenza imposta ma quando, come per miracolo, avvertì che la morte del maestro era vicina, inviò a Bobbio un messaggero per chiedere di essere perdonato. Dal maestro venne l’assoluzione insieme al dono del suo bastone: i resti di questo bastone si trovano oggi conservati in Baviera a Fussen e a Kempten.
La prima cella creata da Gallo fu un piccolo insediamento in legno con una recinzione, costruita, come racconta la leggenda, con l’aiuto di un orso al quale il santo aveva tolto una spina dal piede. L’orso è attualmente il simbolo della attuale città di San Gallo.
Attorno all’eremita si formò un piccola comunità di fedeli e alla sua morte, che avvenne fra il 630 e il 645, una modesta attività monacale continuò nel piccolo eremo. Per la nascita di una vera e propria chiesa si deve arrivare al 719. E’ la figura dell’abate Otmaro, secondo fonti storiche precise, che riprende l’opera creata da Gallo. L'abate Otmaro viene così considerato come un secondo fondatore dell’Abbazia anche perché sostituì l’antica regola irlandese con quella di san Benedetto. Eresse, sostenuto da cinquantatre monaci e da ricche donazioni, un monastero, un albergo per i poveri e uno speciale ospedale per i lebbrosi, esercitando con i suoi monaci la povertà, la pazienza, la beneficenza e lo spirito di sacrificio. All’inizio del nono secolo reggente dell’abate Gozberto comincia la storia di quella Abbazia che diventerà così importante sempre mantenendo il nome di San Gallo. Scavi effettuati nel 1964 sulla attuale struttura hanno rivelato che la chiesa nata con Gozberto aveva già un impianto basilicale ad arcate su colonne a tre navate con una copertura piana. La cripta era accessibile dalle due navate laterali, e la tomba del santo era posta nel coro, resa visibile da una finestrella nella parete occidentale. Nel X secolo attorno alla chiesa cominciò a formarsi un abitato che venne protetto da un muro di cinta persino provvisto di tredici torri. Con la regola benedettina legata all’obbligo della lettura nacque una scuola e lo scriptorium, dove i monaci si dedicarono all’arte della calligrafia e delle decorazioni, raccolsero e copiarono molti manoscritti che oggi sono la preziosità di importanti biblioteche. E così è nata la grande biblioteca dell’Abbazia di San Gallo che oggi è meta di tanti visitatori. Anche la struttura del monastero dal punto di vista architettonico fu oggetto di studio e diventò modello per i monasteri in tutto il continente.
La sua storia ricalca quella che riguarda Bobbio, le Abbazie diventarono centri operativi importanti protetti e sostenuti da possedimenti concessi dai potenti. Insieme alla cultura si diffuse la devozione rivolta ad un nome e, quello di San Gallo arrivò in Italia verso l’ottavo secolo, diffuso nella valle del Bormio da un abate proveniente dello Steinach.
A Firenze il culto del santo lo si ritrova in un luogo di assistenza e accoglienza dei pellegrini che fu fondato nel 1218 all’ingresso nord della città. Da questa piccola chiesa il nome di San Gallo passa anche alla Porta nord della città che lo conserva ancora oggi insieme alla strada che arriva al cuore della città. La chiesa e l’ospitale erano strutture modeste ma nel Quattrocento Lorenzo il Magnifico le volle proteggere e le onorò affidandole ad un architetto e scultore fiorentino, Giuliano Giamberti.
La nuova struttura fu di tale valore che da allora Giuliano per la sua opera venne conosciuto come Giuliano da San Gallo. Con l’assedio di Firenze di Carlo V il monastero fu sacrificato, raso al suolo e scompare la sua storia. Alcune opere vennero messe in salvo dagli Agostiniani che al tempo ne erano i rettori e furono trasportate nella chiesa di S. Jacopo tra i Fossi per ordine di papa Clemente VII. Vi erano fra queste la pala di Andrea del Sarto che rappresenta una Annunciazione che oggi si può ammirare alla Galleria Palatina di Firenze.
A Roma il nome di San Gallo arrivò sempre attraverso le opere di Giuliano assieme al fratello ed al nipote Antonio, col nome acquisito, nella fabbrica di San Pietro e nel chiostro di San Pietro in Vincoli. A Firenze una scultura che rappresenta San Giovanni Battista è opera di Francesco da San Gallo
Giorgio Vasari ne ‘Le vite ‘ è testimone di questo particolare battesimo che porta un umilissimo monaco irlandese nel grande mondo dell’arte rinascimentale.
Lucia Mazzucco
Raro cade chi ben cammina
Leonardo
Io appassionata d'arte e di trekking non posso che non amare questa citazione di un grande artista come Leonardo da Vinci. Questa citazione è tratta da ‘Il Codice Atlantico‘ che è la raccolta di disegni e scritti del grande genio toscano e che comprende 1119 fogli suddivisi in 12 volumi. La raccolta è' composta da fogli con disegni e annotazioni su scoperte, studi e supposizioni che Leonardo ha tenuto nell'arco di circa quarant'anni tra il 1478 e il 1518 e trattano di anatomia, astronomia, botanica, chimica, geografia, matematica, meccanica e architettura. Il nome del codice è dovuto alla grande dimensione delle pagine (64,5 x 43,5 cm) come quelle che venivano usate per realizzare gli atlanti geografici nel 1500. Lo scultore Pompeo Leoni a metà del 1500 incollò gli scritti di Leonardo su pagine da atlante dopo averli recuperati da un erede di Francesco Melzi (allievo fedele del maestro a cui lui affidò gli scritti in punto di morte).
Nel 1796 la preziosa raccolta venne requisita e trasferita a Parigi in seguito alla conquista di Milano da parte di Napoleone e rimase al Louvre per 17 anni, fino a quando il Congresso di Vienna non sancì la restituzione di tutti i beni artistici trafugati dal Bonaparte ai legittimi paesi di appartenenza. Un curioso aneddoto racconta che l’emissario per la restituzione delle opere d’arte nominato dalla casa d’Austria avesse scambiato il prezioso volume per un manoscritto in cinese a causa della tipica grafia inversa del maestro e fu solo grazie all’intervento del celebre scultore Antonio Canova, emissario dello Stato Pontificio, che il Codice Atlantico fu infine incluso tra i beni da restituire all’Ambrosiana, sua sede naturale, dov’è conservato ancora oggi.
In occasione dell’EXPO 2015 a Milano, i fogli saranno esposti a rotazione in mostre tematiche della durata di tre mesi. Per l’evento vengono scelte due sedi: la Sacrestia del Bramante, vero e proprio gioiello di architettura rinascimentale nel Convento di Santa Maria delle Grazie (dove si trova anche Il Cenacolo conosciuto anche come L'ultima cena, grande dipinto parietale di Leonardo), e la suggestiva Sala Federiciana della Biblioteca Ambrosiana, aperta al pubblico per l’occasione.
Ma torniamo a noi... cioè alla citazione... non possono che tornare in mente tutti gli studi che Leonardo ha fatto sul movimento, lo spostarsi inventando mezzi che potessero facilitare e velocizzare il camminare a piedi dell'uomo, come la ruota, le ali. Leonardo appunta sul foglio 26, in cui ipotizza su come una persona potesse camminare sull' acqua grazie a dei galleggianti (degli otri: sacche di pelle di animale che venivano utilizzati in antichità per contenere liquidi) sotto ai piedi, la frase: “Raro cade chi ben cammina”.
Cinque parole. Un'illuminazione.
Ci scivolo nel mezzo e in me si scatena un sacco di emozioni, un sacco di pensieri. Mi allontano un po' dall'immagine dell'uomo che cammina sull' acqua e mi fiondo in un pensiero... e risento in testa quello che mia madre mi diceva mentre disattenta camminavo accanto a lei per strada quando ero piccola: “Guarda dove metti i piedi!”.
Come un ordine.....o più come un buon consiglio che comunque sbofonchiando e facendo “spalluccia” ignoravo... spavalda e non curante. Ma passati gli anni. Primavere e Inverni. Sorrisi e pianti. Ginocchia sbucciate e primi amori. Incontrato l' amore della vita e imparato a volersi un po' più bene.. quella bambina che camminava distratta è diventata grande. Ho letto quella frase proprio su un libro di storia dell'arte in un giorno qualunque e quello che diceva mia madre è tornato come a riconfermare che molto di quello che è stato di negativo e difficile nella mia vita sarebbe potuto “non essere” se solo avessi saputo come affrontarlo o evitarlo negli anni passati. E quel “Guarda dove metti i piedi” mi risuona dentro come quel “Raro cade chi ben cammina“ e prende significato. Ne colgo finalmente il vero significato. Il senso. Scopro che Leonardo, da uomo maturo e colto come era, ha racchiuso tra quelle poche parole una bellissima verità.
Cioè che nella vita è bene fare attenzione a dove mettiamo i piedi.... per non sbagliare, per non cadere, per non ferire, per non calpestare nessuno.... e percorrere il nostro sentiero, che è la vita, nel migliore dei modi. Certo il nostro passo sarà a momenti lento, incerto.... a momenti veloce e sicuro ma certamente sarà sempre dettato dalla passione e dalla curiosità dello andare verso nuovi orizzonti, nuove scoperte e nuove conquiste.
Non saremo mai sopraffatti dalla fatica, dalla stanchezza del vivere, se sapremo calcolare e affrontare via via tutte le difficoltà che inevitabilmente incontreremo sul nostro cammino.
E poche volte, pochissime volte, inciamperemo se sapremo mettere la giusta attenzione e il buon senso nel nostro andare, nel nostro fare. Sarà buona cosa non affrontare il sentiero distrattamente ma cogliere tutte le opportunità che ci presenta la vita per crescere e migliorarsi. E' bene fare i passi giusti e assaporare con attenzione quello che il nostro cammino ci fa scoprire e vivere.
Saremo sempre più ricchi e forti se sapremo cogliere lungo il cammino ciò che di bello e importante c'è intorno a noi, che come linfa vitale ci nutrirà e ci sosterrà lungo tutto il nostro viaggio.
In tutti questi anni di cammino lungo strade di campagna e sentieri di montagna, ho vissuto immersa nella natura momenti di totale pace e beatitudine difficili da spiegare... ma chi come me è un camminatore non avrà difficoltà a capire cosa intendo.
Quello che Leonardo da Vinci ha fatto per tutta la sua vita, cioè osservare il mondo, la natura con tutti i suoi misteri e le sue bellezze è quello che mi auguro di saper sempre fare io quando camminando nel mondo, scorgo panorami bellissimi che mi incantano, vedo fiori dai colori magnifici che rapiscono il mio sguardo, avverto profumi intensi che mi riempiono i polmoni.
Ed è una fortuna immensa avere l'opportunità di percorrere un pezzo del sentiero accanto a persone che andando nella mia stessa direzione condividono con me le loro ricchezze e io con loro le mie.
E proprio in quei momenti così unici e perfetti non posso che pensare di essere nel posto giusto nel momento giusto e che effettivamente come scriveva Leonardo
“Raro cade chi ben cammina”.
Daniela Mazzetti
Io appassionata d'arte e di trekking non posso che non amare questa citazione di un grande artista come Leonardo da Vinci. Questa citazione è tratta da ‘Il Codice Atlantico‘ che è la raccolta di disegni e scritti del grande genio toscano e che comprende 1119 fogli suddivisi in 12 volumi. La raccolta è' composta da fogli con disegni e annotazioni su scoperte, studi e supposizioni che Leonardo ha tenuto nell'arco di circa quarant'anni tra il 1478 e il 1518 e trattano di anatomia, astronomia, botanica, chimica, geografia, matematica, meccanica e architettura. Il nome del codice è dovuto alla grande dimensione delle pagine (64,5 x 43,5 cm) come quelle che venivano usate per realizzare gli atlanti geografici nel 1500. Lo scultore Pompeo Leoni a metà del 1500 incollò gli scritti di Leonardo su pagine da atlante dopo averli recuperati da un erede di Francesco Melzi (allievo fedele del maestro a cui lui affidò gli scritti in punto di morte).
Nel 1796 la preziosa raccolta venne requisita e trasferita a Parigi in seguito alla conquista di Milano da parte di Napoleone e rimase al Louvre per 17 anni, fino a quando il Congresso di Vienna non sancì la restituzione di tutti i beni artistici trafugati dal Bonaparte ai legittimi paesi di appartenenza. Un curioso aneddoto racconta che l’emissario per la restituzione delle opere d’arte nominato dalla casa d’Austria avesse scambiato il prezioso volume per un manoscritto in cinese a causa della tipica grafia inversa del maestro e fu solo grazie all’intervento del celebre scultore Antonio Canova, emissario dello Stato Pontificio, che il Codice Atlantico fu infine incluso tra i beni da restituire all’Ambrosiana, sua sede naturale, dov’è conservato ancora oggi.
In occasione dell’EXPO 2015 a Milano, i fogli saranno esposti a rotazione in mostre tematiche della durata di tre mesi. Per l’evento vengono scelte due sedi: la Sacrestia del Bramante, vero e proprio gioiello di architettura rinascimentale nel Convento di Santa Maria delle Grazie (dove si trova anche Il Cenacolo conosciuto anche come L'ultima cena, grande dipinto parietale di Leonardo), e la suggestiva Sala Federiciana della Biblioteca Ambrosiana, aperta al pubblico per l’occasione.
Ma torniamo a noi... cioè alla citazione... non possono che tornare in mente tutti gli studi che Leonardo ha fatto sul movimento, lo spostarsi inventando mezzi che potessero facilitare e velocizzare il camminare a piedi dell'uomo, come la ruota, le ali. Leonardo appunta sul foglio 26, in cui ipotizza su come una persona potesse camminare sull' acqua grazie a dei galleggianti (degli otri: sacche di pelle di animale che venivano utilizzati in antichità per contenere liquidi) sotto ai piedi, la frase: “Raro cade chi ben cammina”.
Cinque parole. Un'illuminazione.
Ci scivolo nel mezzo e in me si scatena un sacco di emozioni, un sacco di pensieri. Mi allontano un po' dall'immagine dell'uomo che cammina sull' acqua e mi fiondo in un pensiero... e risento in testa quello che mia madre mi diceva mentre disattenta camminavo accanto a lei per strada quando ero piccola: “Guarda dove metti i piedi!”.
Come un ordine.....o più come un buon consiglio che comunque sbofonchiando e facendo “spalluccia” ignoravo... spavalda e non curante. Ma passati gli anni. Primavere e Inverni. Sorrisi e pianti. Ginocchia sbucciate e primi amori. Incontrato l' amore della vita e imparato a volersi un po' più bene.. quella bambina che camminava distratta è diventata grande. Ho letto quella frase proprio su un libro di storia dell'arte in un giorno qualunque e quello che diceva mia madre è tornato come a riconfermare che molto di quello che è stato di negativo e difficile nella mia vita sarebbe potuto “non essere” se solo avessi saputo come affrontarlo o evitarlo negli anni passati. E quel “Guarda dove metti i piedi” mi risuona dentro come quel “Raro cade chi ben cammina“ e prende significato. Ne colgo finalmente il vero significato. Il senso. Scopro che Leonardo, da uomo maturo e colto come era, ha racchiuso tra quelle poche parole una bellissima verità.
Cioè che nella vita è bene fare attenzione a dove mettiamo i piedi.... per non sbagliare, per non cadere, per non ferire, per non calpestare nessuno.... e percorrere il nostro sentiero, che è la vita, nel migliore dei modi. Certo il nostro passo sarà a momenti lento, incerto.... a momenti veloce e sicuro ma certamente sarà sempre dettato dalla passione e dalla curiosità dello andare verso nuovi orizzonti, nuove scoperte e nuove conquiste.
Non saremo mai sopraffatti dalla fatica, dalla stanchezza del vivere, se sapremo calcolare e affrontare via via tutte le difficoltà che inevitabilmente incontreremo sul nostro cammino.
E poche volte, pochissime volte, inciamperemo se sapremo mettere la giusta attenzione e il buon senso nel nostro andare, nel nostro fare. Sarà buona cosa non affrontare il sentiero distrattamente ma cogliere tutte le opportunità che ci presenta la vita per crescere e migliorarsi. E' bene fare i passi giusti e assaporare con attenzione quello che il nostro cammino ci fa scoprire e vivere.
Saremo sempre più ricchi e forti se sapremo cogliere lungo il cammino ciò che di bello e importante c'è intorno a noi, che come linfa vitale ci nutrirà e ci sosterrà lungo tutto il nostro viaggio.
In tutti questi anni di cammino lungo strade di campagna e sentieri di montagna, ho vissuto immersa nella natura momenti di totale pace e beatitudine difficili da spiegare... ma chi come me è un camminatore non avrà difficoltà a capire cosa intendo.
Quello che Leonardo da Vinci ha fatto per tutta la sua vita, cioè osservare il mondo, la natura con tutti i suoi misteri e le sue bellezze è quello che mi auguro di saper sempre fare io quando camminando nel mondo, scorgo panorami bellissimi che mi incantano, vedo fiori dai colori magnifici che rapiscono il mio sguardo, avverto profumi intensi che mi riempiono i polmoni.
Ed è una fortuna immensa avere l'opportunità di percorrere un pezzo del sentiero accanto a persone che andando nella mia stessa direzione condividono con me le loro ricchezze e io con loro le mie.
E proprio in quei momenti così unici e perfetti non posso che pensare di essere nel posto giusto nel momento giusto e che effettivamente come scriveva Leonardo
“Raro cade chi ben cammina”.
Daniela Mazzetti
La fatica
Il Tabard a Southwark
Vi ricordate “The Canterbury Tales” e i racconti recitati dai più famosi
pellegrini della storia? Se sì, saprete che questi pellegrini si sono radunati
al Tabard Inn, da lì sono partiti e lì sarebbero tornati per una cena offerta
dall’oste a pellegrinaggio concluso. L'estate scorsa mi trovavo nel London Borough of Southwark e vidi la
targa sul luogo dove nel medioevo sorgeva il Tabard Inn. Sono stata trafitta
dal ricordo dei giorni di scuola e anche dalla curiosità. Mi sono chiesta
perché la comitiva si fosse radunata proprio a Southwark. Perciò ho fatto una
piccola ricerca.
Il Tabard Inn, (inn significa locanda), è realmente esistita e fu costruita
nel 1307, quando l'abate di Hyde comprò il terreno con lo scopo di edificare un
ostello per quando gli affari lo portavano a Londra e anche per dare un punto
di raccolta ai pellegrini in viaggio verso Canterbury per pregare sulla tomba
di Thomas Becket, morto per mano di quattro cavalieri di re Enrico II nel 1170.
Il Tabard fu distrutto nell’ incendio del 1669 e al suo posto fu costruita
un’altra locanda, “the Talbot”.
Ma perché proprio a
Southwark, un quartiere con una pessima reputazione? Non c'erano altri modi di
arrivare a Canterbury? E se no, perché? La risposta è incredibilmente semplice.
Per secoli l'unico ponte sul Tamigi tra la riva sud e il punto sulla riva nord
dove sarebbe sorta la città di Londra era proprio a Southwark. Il primo ponte
fu costruito dai Romani e questa loro scelta fu dettata dalla geografia. Il
terreno che confinava con l'estuario del Tamigi era una vasta palude, e fu a
Southwark che i Romani, muovendosi dalla costa del Kent dove erano approdati,
trovarono il primo punto dove il suolo poteva sopportare il peso della base per
un ponte. Tutto il terreno circostante era una palude e non fu possibile
costruire un insediamento fortificato, mentre dall'altra parte del fiume, su
un’altura, è nata Londinium, che
sarebbe diventata la città di Londra. Si potrebbe dire: prima la geografia e
poi la storia.
Quel primo ponte romano fu
costruito di legno e non resse al passare del tempo. Furono costruiti altri
ponti, ma sempre di legno e tutti sono crollati o sono stati distrutti. Con
Becket ormai santo c'era un flusso di pellegrini da tutte le parti
dell’Inghilterra verso Canterbury. Era possibile attraversare il Tamigi con
qualche traghetto, ma un ponte sicuro era diventato una necessità e non solo
per le comitive religiose, ma anche per tutti quelli che avevano bisogno di
passare da una parte del fiume all'altra. Perciò fu un bene che nel 1163 ebbe
l'inizio la costruzione di un ponte in pietra per iniziativa di un prete, Peter
de Colechurch. Ci vollero trent'anni per completare l’opera, finanziata dalle
tasse imposte dai re Enrico II, Riccardo I e Giovanni e anche dai Bridge House Estates, un ente di
beneficenza che raccoglieva offerte per Dio e il Ponte. Peter di Colechurch fu
cappellano della chiesa di Santa Maria Colechurch dove fu battezzato Thomas
Becket. Perciò la cappella al centro del ponte fu dedicata al nuovo santo e
martire. Peter morì nel 1205 e fu sepolto nella cripta. I pellegrini si
fermavano a pregare nella cappella prima della loro partenza. Questo divenne il
famosissimo London Bridge.
Quasi subito dopo la morte
di Becket, la gente cominciò ad andare a pregare sulla sua tomba e lui è stato
fatto santo solo tre anni dopo il martirio. Infatti, Canterbury ben presto
divenne la principale meta inglese dei pellegrini, alcuni dei quali
continuavano lungo la Via Francigena fino a Roma. Si può capire che, nonostante
le difficoltà ed i pericoli, la riva sud del Tamigi a Southwark divenne il
punto naturale di raduno e partenza per diversi gruppi di pellegrini. C'era il
ponte e c'erano diverse case religiose che davano ospitalità ma, nonostante
tutto ciò, la strada conosciuta come 'Pilgrims'
Way' fu quella da Winchester, importantissima città nel sud d'Inghilterra,
fino a Canterbury e tante persone, pensando che quella sarebbe una strada più
sicura, la preferivano a quella da Londra, anche se era molto più lunga.
Il problema era che l'area
a sud di Londra era un territorio dove trovava rifugio ogni sorta di malvivente
e criminale e le persone sagge la evitavano. Si è sempre saputo che, nel
Medioevo, un pellegrinaggio non fosse una passeggiata, ma piuttosto un viaggio
pieno di incertezza e pericoli, e per tanti quel raduno a Southwark era un vero
ostacolo; col passare degli anni, la situazione divenne sempre più
insostenibile fino a quando, nel 1327, il re Edoardo III mise il borgo di
Southwark sotto il controllo e la legge della Città di Londra e questo,
evidentemente, migliorò un po' la vita del luogo. Qui va detto che questa zona
aveva mantenuto fino ad allora il suo status di “borgo”, cioè un posto fuori
della città e non soggetto alle sue leggi. Infatti, era sotto la giurisdizione
dei vescovi di Winchester che erano considerati corrotti anche per gli standard
del tempo! Comunque, per chiunque avesse motivi onesti per andarci, dopo
l'intervento del re, le cose furono più semplici.
Il Tabard Inn era
veramente famoso come ritrovo dei pellegrini e per Chaucer, un uomo che
conosceva bene tutto di Londra, doveva
essere naturale far partire i suoi personaggi da lì. Bisogna ricordare anche
che “The Canterbury Tales” fu pubblicato alla fine del ‘300, e cioè dopo la
rivolta dei contadini del 1381. Questa rivolta fu soppressa con ferocia
medioevale e dopo, per qualche anno almeno, il regno fu più calmo: un momento
perfetto per fare un pellegrinaggio.
Nina Brown
EDWARD HENRY CORBOULD
I PELLEGRINI STANCHI DI OTTORINO RESPIGHI
Feste romane è un poema sinfonico di Ottorino Respighi scritto nel 1928. Definito un affresco musicale fa parte di una trilogia con la quale il musicista rivolge uno sguardo speciale alla città che lo ha visto direttore eccelso della Accademia di santa Cecilia.
Nel celebrare questa romanità non poteva mancare il Giubileo, titolo del secondo movimento, mentre Circenses, Ottobrata e la Befana sono i titoli che completano un’ evocazione storica di momenti in cui la città merita di essere ricordata. Il brano è affidato ad un’ orchestra molto grande, composta di strumenti che giocano per poter realizzare un’ atmosfera un po’ sospesa che trasporta e fa percepire il desiderio di arrivare alla meta . I pellegrini si trascinano lungo la via, pregando. Finalmente, dalla vetta di Monte Mario, appare agli occhi ardenti e alle anime anelanti la città santa:“Roma! Roma!”. Un inno di giubilo prorompe, e gli risponde lo scampanio di tutte le chiese. Così scrive l’autore sulla partitura, come premessa al brano e precisa inoltre queste indicazioni per i tempi da seguire :Doloroso e stanco, Poco più mosso, Allegro moderato, Allegro festoso, Più calmo, Allegro.
La prima esecuzione assoluta di Feste romane è stata a New York nella Carnegie Hall nel 1929, mentre le altre due composizioni che creano questa Trilogia Le Fontane di Roma’ del 1916 e I pini di Roma del 1924 erano state presentate per la prima volta al Teatro Augusteo di Roma.Il clima che Ottorino Respighi riesce a comunicare nel Giubileo è nuovamente evocato nel secondo movimento dei Pini di Roma, quello che descrive con una nenia maestosa (Lento) una pineta nei pressi di una catacomba nella campagna romana. Possiamo cogliere attraverso gli strumenti dell’orchestra dai timbri bassi la sensazione della catacomba che si trova nel profondo, e il canto dei preti interpretato dai tromboni.…. ecco l’ombra dei pini che coronano l’ingresso di una catacomba : sale dal profondo una salmodia accorata, si diffonde solenne come un inno e dilegua misteriosa.
Decisamente orientati su un cammino diverso sono i passi che descrivono, nei Pini della via Appia, l’antica strada consolare, perché non sono più passi dei pellegrini. Sono infatti a Tempo di marcia, i passi di una legione che avanza: Alba nebbiosa sulla via Appia. La campagna tragica è vigilata di pini solitari. Indistinto, incessante, il ritmo di un passo innumerevole. Alla fantasia del poeta appare una visione di antiche glorie. Squillano le buccine ed un esercito consolare irrompe, nel fulgore del nuovo sole verso la Via sacra, per ascendere al trionfo del Campidoglio.
Feste romane è un poema sinfonico di Ottorino Respighi scritto nel 1928. Definito un affresco musicale fa parte di una trilogia con la quale il musicista rivolge uno sguardo speciale alla città che lo ha visto direttore eccelso della Accademia di santa Cecilia.
Nel celebrare questa romanità non poteva mancare il Giubileo, titolo del secondo movimento, mentre Circenses, Ottobrata e la Befana sono i titoli che completano un’ evocazione storica di momenti in cui la città merita di essere ricordata. Il brano è affidato ad un’ orchestra molto grande, composta di strumenti che giocano per poter realizzare un’ atmosfera un po’ sospesa che trasporta e fa percepire il desiderio di arrivare alla meta . I pellegrini si trascinano lungo la via, pregando. Finalmente, dalla vetta di Monte Mario, appare agli occhi ardenti e alle anime anelanti la città santa:“Roma! Roma!”. Un inno di giubilo prorompe, e gli risponde lo scampanio di tutte le chiese. Così scrive l’autore sulla partitura, come premessa al brano e precisa inoltre queste indicazioni per i tempi da seguire :Doloroso e stanco, Poco più mosso, Allegro moderato, Allegro festoso, Più calmo, Allegro.
La prima esecuzione assoluta di Feste romane è stata a New York nella Carnegie Hall nel 1929, mentre le altre due composizioni che creano questa Trilogia Le Fontane di Roma’ del 1916 e I pini di Roma del 1924 erano state presentate per la prima volta al Teatro Augusteo di Roma.Il clima che Ottorino Respighi riesce a comunicare nel Giubileo è nuovamente evocato nel secondo movimento dei Pini di Roma, quello che descrive con una nenia maestosa (Lento) una pineta nei pressi di una catacomba nella campagna romana. Possiamo cogliere attraverso gli strumenti dell’orchestra dai timbri bassi la sensazione della catacomba che si trova nel profondo, e il canto dei preti interpretato dai tromboni.…. ecco l’ombra dei pini che coronano l’ingresso di una catacomba : sale dal profondo una salmodia accorata, si diffonde solenne come un inno e dilegua misteriosa.
Decisamente orientati su un cammino diverso sono i passi che descrivono, nei Pini della via Appia, l’antica strada consolare, perché non sono più passi dei pellegrini. Sono infatti a Tempo di marcia, i passi di una legione che avanza: Alba nebbiosa sulla via Appia. La campagna tragica è vigilata di pini solitari. Indistinto, incessante, il ritmo di un passo innumerevole. Alla fantasia del poeta appare una visione di antiche glorie. Squillano le buccine ed un esercito consolare irrompe, nel fulgore del nuovo sole verso la Via sacra, per ascendere al trionfo del Campidoglio.