I piedi del pellegrino
In una società ormai votata in tutti i suoi aspetti alla velocità degli spostamenti e alla rapidità dei contatti, il pellegrino, come chiunque scelga di camminare a piedi, si pone in controtendenza: solo i piedi come unico
mezzo per andare alla sua meta, lento e sicuro.
Mezzo semplice ed antico: con una buona calzatura, un sacco ed un bastone si arriva ovunque. I 25-30 Km sono la distanza media che si possa percorrere in tranquillità in un giorno di cammino; è una distanza ormai consolidata in tutti i cammini, dove i ricoveri per il riposo sono situati con questi limiti.
Tale percorso comporta circa 7-8 ore di cammino, ed è un impegno fisico di non poco conto se si considera anche il peso sulle spalle dello zaino, le possibili salite e discese, il disagio del caldo o del freddo, la pioggia, ecc.
E’ uno sforzo comunque lento e continuo che può essere sopportato facilmente se si ha la determinazione di farlo e soprattutto se si è seguito un preventivo allenamento. La muscolatura, il cuore ed i piedi sono gli obiettivi del nostro allenamento.
E’ ovvio che questo “motore” portentoso deve essere curato e rispettato, oltre che conosciuto, per poterne sfruttare al meglio le potenzialità.
Il piede contraddistingue l’uomo fra tutti gli esseri viventi. E’ una struttura molto complessa, sede di numerose terminazioni sensitive, che come attore protagonista del passo fa conoscere al cervello lo stato del terreno su cui poggerà e quindi permette l’elaborazione di una risposta motoria che metterà in condizione il piede di appoggiare il peso e spostarlo nello spazio. Durante il passo il movimento del piede è sostanzialmente finalizzato a tre scopi: l’ammortizzazione dell’impatto con il suolo, il mantenimento del sostegno stabile, e la progressione nello spazio. Per l’ ammortizzazione è determinante
la mobilità el’elasticità delle articolazioni del retro piede, fra il momento dell’inizio del contatto del tallone e quando la pianta del piede ha il pieno appoggio al
suolo. Il sostegno viene dato dalla attivazione sinergica dei muscoli della gamba e della pianta del piede.
La progressione avviene per la spinta attuata dei muscoli flessori delle dita. Da un punto di vista biomeccanico, lo svolgimento del passo prevede una fase di appoggio e contatto, una di rilassamento, una di irrigidimento ed una di propulsione e stacco. Il peso del corpo viene alternativamente caricato su un solo piede ed in questa fase nel piede caricato la circolazione sanguigna è “compressa” per cui il sangue è “scacciato” via dal peso; il sangue ritorna con il suo apporto di nutrimento e ossigeno quando il piede è invece nella fase di stacco dal terreno, senza carico. Quindi il succedersi della fase di carico e di non carico, oltre
alla contrazione dei muscoli degli arti inferiori, permette di “spremere” il sangue dai piedi ed inviarlo verso il cuore, come spinto da una pompa.Durante il passo, il piede viene nutrito dal sangue per metà tempo, mentre per l’altra metà ha poco sangue a disposizione ed è sottoposto a sforzo. Un passo troppo veloce, ad esempio, aumenta nell’unità di tempo lo sforzo e riduce il tempo di nutrimento, portando ad un accumulo nel piede e nelle gambe di sostanze di rifiuto
(tipo acido lattico). Un breve periodo di riposo (5-10 minuti), magari con le gambe alzate, ogni due ore di cammino aiuta lo smaltimento delle sostanze di rifiuto.
Un altro punto critico è lo sfregamento del piede nella calzatura. Va premesso che per camminare occorrono scarpe già usate e provate (mai utilizzare scarpe nuove per fare lunghi percorsi !): ben ammortizzate, comode, traspiranti, resistenti e stabili. Meglio portarsi un cambio da fare a metà percorso, scarpe chiuse al mattino presto, sandali da trekking a metà mattina. Anche i calzini comportano attenzione, dovendo essere aderenti ed elastici, senza cuciture. Nonostante
queste attenzioni lo sfregamento fra il piede e la calzatura si può verificare, causando vesciche dolorose. La vescica o “galla” non è altro che l’accumulo di liquido
negli strati profondi della pelle e sostanzialmente rappresenta un meccanismo di difesa della pelle contro l’attrito concentrato in un punto. Se il disturbo continua e non si prendono le dovute precauzioni, la vescica aumenta di volume creando un effetto di compressione locale e causando sempre più dolore.
Se la vescica si apre, fuoriesce il liquido contenuto e quindi diminuisce il dolore, però si perde l’effetto protettivo della pelle nei confronti dei piani sottostanti e diventa a tutti gli effetti una ferita, con dolore, possibilità di sanguinamento ed infezione.
A fine giornata (o anche a metà cammino) è bene svuotare le vesciche che si possono essere formate: questo permette di ridurre la compressione, mantenendo la quasi integrità della pelle: dopo un buon lavaggio del piede, si disinfetta la pelle con liquido iodato (Betadine®), si usa un piccolo ago sterile monouso per forare la vescica e dopo lo svuotamento del liquido, si passa ancora una volta il disinfettante e si applica un cerotto,meglio se medicato con un antinfiammatorio (tipo “ketoprofene”). Qualcuno lascia un filo da cucire nella vescica come drenaggio:questo è da evitare perché permette l’ingresso di germi nella vescica, al di là della barriera protettiva costituita dalla pelle, on rischio di infezione. In mancanza degli aghi sterili, si può usare un comune ago da cucire, sterilizzato nella punta dalla fiamma di un accendino. Doveroso un cenno agli idrocolloidi, ultimi ritrovati nella prevenzione e cura del piede: si tratta di un gel idrocolloidale a base di carbometilcellulosa (Fenrepar Novartis ®) che funziona da strato protettivo contro lo sfregamento del piede nella calzatura (in pratica una seconda pelle) consentendo alla pelle di ridurre la produzione di “pelle dura” non dovendosi più difendere dall’attrito. In caso di vesciche e di loro rottura il gel può essere usato per proteggere i tessuti infiammati, riduce lo scollamento del sottocute ed protegge dalle infezioni, mantenendo le condizioni di umidità ottimali per la guarigione. Il gel si trova anche preparato su cerotti modellati (Compeed®) da apporre dove si prevede che vi sarà un sfregamento particolare.
Una cura particolare va dedicata alle unghie delle dita dei piedi. Devono essere tagliatecon cura, perché la loro eccessiva lunghezza può comportare un conflitto delle dita dei piedi con la punta della scarpa, soprattutto nei tratti in discesa quando tutto il peso del corpo spinge in avanti il piede (importante in queste occasioni servirsi del bastone). Il cammino è una esperienza molto forte, psichicamente ed emotivamente. Questo ci fa superare difficoltà fisiche che non avremmo mai immaginato: tuttavia un buon allenamento, prevenzione e attenzione al nostro assetto (calzature, peso dello zaino, abbigliamento, ecc) faranno di questa prova una delle esperienze più belle della nostra vita.
Bibliografia:
P.Ronconi, S Ronconi. Il piede.Biomeccanica. Timeo Edizioni Bologna.2001
A.Porres Mijares, A. Gonzalez de la Rubia. Como
cuidar tus pies. Ed L.G. Arranz. Madrid 2004 (traduzione di Viola Mazzucco)
R.Ridi, R. Saggini. Equilibriio corporeo: Ed. Martina, Bologna, 2003
Luciano Mazzucco
Specialista in Ortopedia e Traumatologia
mezzo per andare alla sua meta, lento e sicuro.
Mezzo semplice ed antico: con una buona calzatura, un sacco ed un bastone si arriva ovunque. I 25-30 Km sono la distanza media che si possa percorrere in tranquillità in un giorno di cammino; è una distanza ormai consolidata in tutti i cammini, dove i ricoveri per il riposo sono situati con questi limiti.
Tale percorso comporta circa 7-8 ore di cammino, ed è un impegno fisico di non poco conto se si considera anche il peso sulle spalle dello zaino, le possibili salite e discese, il disagio del caldo o del freddo, la pioggia, ecc.
E’ uno sforzo comunque lento e continuo che può essere sopportato facilmente se si ha la determinazione di farlo e soprattutto se si è seguito un preventivo allenamento. La muscolatura, il cuore ed i piedi sono gli obiettivi del nostro allenamento.
E’ ovvio che questo “motore” portentoso deve essere curato e rispettato, oltre che conosciuto, per poterne sfruttare al meglio le potenzialità.
Il piede contraddistingue l’uomo fra tutti gli esseri viventi. E’ una struttura molto complessa, sede di numerose terminazioni sensitive, che come attore protagonista del passo fa conoscere al cervello lo stato del terreno su cui poggerà e quindi permette l’elaborazione di una risposta motoria che metterà in condizione il piede di appoggiare il peso e spostarlo nello spazio. Durante il passo il movimento del piede è sostanzialmente finalizzato a tre scopi: l’ammortizzazione dell’impatto con il suolo, il mantenimento del sostegno stabile, e la progressione nello spazio. Per l’ ammortizzazione è determinante
la mobilità el’elasticità delle articolazioni del retro piede, fra il momento dell’inizio del contatto del tallone e quando la pianta del piede ha il pieno appoggio al
suolo. Il sostegno viene dato dalla attivazione sinergica dei muscoli della gamba e della pianta del piede.
La progressione avviene per la spinta attuata dei muscoli flessori delle dita. Da un punto di vista biomeccanico, lo svolgimento del passo prevede una fase di appoggio e contatto, una di rilassamento, una di irrigidimento ed una di propulsione e stacco. Il peso del corpo viene alternativamente caricato su un solo piede ed in questa fase nel piede caricato la circolazione sanguigna è “compressa” per cui il sangue è “scacciato” via dal peso; il sangue ritorna con il suo apporto di nutrimento e ossigeno quando il piede è invece nella fase di stacco dal terreno, senza carico. Quindi il succedersi della fase di carico e di non carico, oltre
alla contrazione dei muscoli degli arti inferiori, permette di “spremere” il sangue dai piedi ed inviarlo verso il cuore, come spinto da una pompa.Durante il passo, il piede viene nutrito dal sangue per metà tempo, mentre per l’altra metà ha poco sangue a disposizione ed è sottoposto a sforzo. Un passo troppo veloce, ad esempio, aumenta nell’unità di tempo lo sforzo e riduce il tempo di nutrimento, portando ad un accumulo nel piede e nelle gambe di sostanze di rifiuto
(tipo acido lattico). Un breve periodo di riposo (5-10 minuti), magari con le gambe alzate, ogni due ore di cammino aiuta lo smaltimento delle sostanze di rifiuto.
Un altro punto critico è lo sfregamento del piede nella calzatura. Va premesso che per camminare occorrono scarpe già usate e provate (mai utilizzare scarpe nuove per fare lunghi percorsi !): ben ammortizzate, comode, traspiranti, resistenti e stabili. Meglio portarsi un cambio da fare a metà percorso, scarpe chiuse al mattino presto, sandali da trekking a metà mattina. Anche i calzini comportano attenzione, dovendo essere aderenti ed elastici, senza cuciture. Nonostante
queste attenzioni lo sfregamento fra il piede e la calzatura si può verificare, causando vesciche dolorose. La vescica o “galla” non è altro che l’accumulo di liquido
negli strati profondi della pelle e sostanzialmente rappresenta un meccanismo di difesa della pelle contro l’attrito concentrato in un punto. Se il disturbo continua e non si prendono le dovute precauzioni, la vescica aumenta di volume creando un effetto di compressione locale e causando sempre più dolore.
Se la vescica si apre, fuoriesce il liquido contenuto e quindi diminuisce il dolore, però si perde l’effetto protettivo della pelle nei confronti dei piani sottostanti e diventa a tutti gli effetti una ferita, con dolore, possibilità di sanguinamento ed infezione.
A fine giornata (o anche a metà cammino) è bene svuotare le vesciche che si possono essere formate: questo permette di ridurre la compressione, mantenendo la quasi integrità della pelle: dopo un buon lavaggio del piede, si disinfetta la pelle con liquido iodato (Betadine®), si usa un piccolo ago sterile monouso per forare la vescica e dopo lo svuotamento del liquido, si passa ancora una volta il disinfettante e si applica un cerotto,meglio se medicato con un antinfiammatorio (tipo “ketoprofene”). Qualcuno lascia un filo da cucire nella vescica come drenaggio:questo è da evitare perché permette l’ingresso di germi nella vescica, al di là della barriera protettiva costituita dalla pelle, on rischio di infezione. In mancanza degli aghi sterili, si può usare un comune ago da cucire, sterilizzato nella punta dalla fiamma di un accendino. Doveroso un cenno agli idrocolloidi, ultimi ritrovati nella prevenzione e cura del piede: si tratta di un gel idrocolloidale a base di carbometilcellulosa (Fenrepar Novartis ®) che funziona da strato protettivo contro lo sfregamento del piede nella calzatura (in pratica una seconda pelle) consentendo alla pelle di ridurre la produzione di “pelle dura” non dovendosi più difendere dall’attrito. In caso di vesciche e di loro rottura il gel può essere usato per proteggere i tessuti infiammati, riduce lo scollamento del sottocute ed protegge dalle infezioni, mantenendo le condizioni di umidità ottimali per la guarigione. Il gel si trova anche preparato su cerotti modellati (Compeed®) da apporre dove si prevede che vi sarà un sfregamento particolare.
Una cura particolare va dedicata alle unghie delle dita dei piedi. Devono essere tagliatecon cura, perché la loro eccessiva lunghezza può comportare un conflitto delle dita dei piedi con la punta della scarpa, soprattutto nei tratti in discesa quando tutto il peso del corpo spinge in avanti il piede (importante in queste occasioni servirsi del bastone). Il cammino è una esperienza molto forte, psichicamente ed emotivamente. Questo ci fa superare difficoltà fisiche che non avremmo mai immaginato: tuttavia un buon allenamento, prevenzione e attenzione al nostro assetto (calzature, peso dello zaino, abbigliamento, ecc) faranno di questa prova una delle esperienze più belle della nostra vita.
Bibliografia:
P.Ronconi, S Ronconi. Il piede.Biomeccanica. Timeo Edizioni Bologna.2001
A.Porres Mijares, A. Gonzalez de la Rubia. Como
cuidar tus pies. Ed L.G. Arranz. Madrid 2004 (traduzione di Viola Mazzucco)
R.Ridi, R. Saggini. Equilibriio corporeo: Ed. Martina, Bologna, 2003
Luciano Mazzucco
Specialista in Ortopedia e Traumatologia
ANATOMIA DEL PELLEGRINO
Lo chiamarono “il bipede barcollante”. Precarie le condizioni di equilibrio su cui la sua postura eretta si reggeva.
Il bipedismo, il camminare su due soli arti, tanto gli studiosi si sono domandati quale guadagno ne derivasse.
Ma il camminare è attività distintiva dell’uomo prima che esso fosse “uomo”. La nostra specie ha fatto della locomozione bipede, del camminare e non solo, del correre e dello spostarsi, una sua caratteristica: una sua prerogativa. Già l’homo erectus fu un colonizzatore senza pari; fu il primo vero viaggiatore. Dall’Africa verso l’Asia e l’Europa forse in meno di un milione di anni e sfruttando già come vie di comunicazione le distese d’acqua attraverso la navigazione, la presenza di ponti terrestri ed altri collegamenti temporanei tra i continenti.
Vi è certamente una base biologica dietro le migrazioni di singoli individui ed intere popolazioni: la cerca del partner, di nuove fonti alimentari, ma anche la competizione fra specie così un’esagerata crescita e pressione demografica.
Ma vi sono fattori di carattere sociale, economico e psicologico dietro il continuato e frenetico spostarsi umano che lo differenziano e lo complicano rispetto a qualunque altra specie.
Parlare di Chatwin quando si parla del viaggio diventa quasi un cliché. Fu proprio lo scrittore a codificare l’impossibilità di rimanere fermi, “l’irrequietezza”, trovandovi una ragione insita nell’uomo, una pulsione “inseparabile dal sistema nervoso”.
Fuga, scoperta, rinascita, sono tutti temi del viaggio, che si può ripresentare in una miriade di forme diverse. Il movimento non è semplicemente qualcosa di anarchico, come un’opposizione tra nomadismo e mondo stanziale, tra mondo primitivo e civilizzato. No il viaggio può nascere anche dal desiderio di dare ordine. Nel momento in cui si parte, in cui si accende un movimento, si crea un tragitto, una strada, un obbiettivo, una metà, per quanto provvisoria.
Un aspetto di questo movimento ne è il pellegrinaggio. Non ne esce, non è una categoria a sé stante e non lo si può semplicemente chiuderlo all’interno del termine “religioso”.
Lo stesso pellegrino, etimologicamente, non è nient’altro che colui che “va attraverso i campi”. Per molti aspetti esso non differisce da un comune viaggiatore., ma ha un elemento che lo differenzia sostanzialmente: esso tende con straordinaria forza verso l’inatteso. Come un uomo che scruta ogni sasso attorno a sé pronto a riconoscervi un volto.
Per chiarire quest’immagine è necessario arrivare al concetto di “sacro”.
Otto Rudolf, teologo e storico delle religioni, riteneva che il sacro fosse una categoria della mente umana che permettesse di conoscere anche ciò che non altrimenti non era conoscibile attraverso la ragione: il sovrannaturale.
Gli studi sul sacro si sono sbizzarriti, incontrati, stralciati a vicenda; farne una anche solo una lista delle teoria e della letteratura che si è scritta sarebbe impraticabile in questa sede. Tuttavia è da rilevare che il concetto del sacro è legato inscindibilmente all’idea di una forza che viene percepita come straordinariamente potente e fuori dell’ordinario.
Recenti progressi nelle scienze cognitive, che vedono tra i loro maggiori fautori autori quali Pascal Boyer, Scott Atran, Alan Leslie, hanno però proposto una rilettura di tale concetto e delle modalità con cui l’uomo ne fa esperienza.
La mente umana sarebbe infatti composta di un insieme di dispositivi computazionali, chiamati moduli o meccanismi modulari, legati ognuno ad uno specifico problema cognitivo e comportamentale. Ogni dispositivo ha un suo campo di dominio all’interno del quale si attiva; vi è ad esempio un modulo atto al riconoscimento dei volti e delle espressioni facciali dei nostri simili, così come vi è un modulo atto ad analizzare esclusivamente stimoli di tipo acustico-linguistico. Non esisterebbe però nessun meccanismo atto a rilevare il “sacro” od altri fenomeni religiosi, bensì il sacro si configurerebbe come un errore proprio nell’attivazione di tali meccanismi.
Cosa accade di fatto quando si riconosce un volto in una nuvola od in un sasso?
I meccanismi modulari possono attivarsi anche al di fuori del loro campo di dominio. Tale evento, tale “errore”, produrrebbe un dato immediatamente rilevante, come un qualcosa di inatteso e straordinario. È allora che si avrebbe la nascita di un’idea religiosa.
Esse nascerebbero nel momento in cui si registra e si fa esperienza di un aspetto che viola e tradisce le nostre aspettative. Ognuno di noi ha infatti un’ampia serie di aspettative riguardanti ad esempio, il comportamento dei corpi nello spazio e il loro movimento, o circa alcuni processi biologici, quale la morte o la nascita. Le idee religiose sistematicamente tradirebbero tali aspettative.
Il sacro lo si potrebbe quindi leggere come una categoria di stimoli e percezioni direttamente influenzata dall’ambiente e dalle situazioni esterne, ambientali e sociali. È un esperienza che si connota come straordinaria, ma non come trascendente o distaccata dalla realtà. E semmai da essa che nasce ed lo fa in maniera inconsapevole, intuitiva e spontanea.
Una delle tradizionali letture delle credenze religiose le imputava all’azione e alla pressione sull’individuo e sulle popolazioni di tensioni, paure e preoccupazioni di carattere morale e metafisico, circa la morte, malattie, agenti negativi, e via dicendo.
I fatti religiosi sembrano invece scaturire da un serie di elementi che da un lato tradiscono le nostre aspettative sulla realtà, inattesi quindi, e che dall’altro sembrano invece confermarle. Come un mix di caratteri tipicamente umani e tipicamente non-umani. Alcuni di questi stimoli, scaturiti e percepiti direttamente dall’ambiente esterno, funzionerebbero da perno per la nascita di credenze religiose, poi arricchite di elementi ed assunzioni “intuitive”.
Può essere quindi, per tornare al nostro tema, il pellegrino un uomo che scruta ogni sasso attorno a sé pronto a riconoscervi un volto?
Forse.
Il pellegrinaggio è certo si configura come il mondo dell’inatteso. Per definizione è al di fuori dell’ordinario.
Testimonianze etnografiche ripetono con vigore che il pellegrinaggio era ancora nella prima metà del secolo scorso un momento in cui si valicavano, trasgredivano barriere e sbarramenti, cliché sociali, differenze di sesso ed età.
È un momento di liberazione, in cui era lecito fare ciò che altrimenti, nel quotidiano non lo era.
Il pellegrino è così forse nella condizione ideale per cogliere l’inatteso. Tende verso lo straordinario. È pronto ad ascoltare.
È un movimento spontaneo il suo, una migrazione libera, senza mediazioni, che permette di liberarsi dalle ansie, dai pensieri di ogni giorno e porsi in una condizione privilegiata per l’osservazione del suo tragitto e del suo cammino e del “sacro” che vi è e che lo circonda.
Parafrasando “l’ordinario” e “l’impossibile” di Lorenzo Carlo Magno, solo un’altra chiave di lettura del peregrinare.
Riferimenti bibliografici
Boyer Pascal, Religion Explained, Basic Books
Bruce Chatwin, Anatomia dell’irrequitezza, Adelphi
Filoramo Giovanni, Cos’è la religione: temi, metodi, problemi, Einaudi
Tobias Philip V., Il bipede barcollante: corpo, cervello evoluzione umana, Einaudi
NICCOLO' MAZZUCCO
Il bipedismo, il camminare su due soli arti, tanto gli studiosi si sono domandati quale guadagno ne derivasse.
Ma il camminare è attività distintiva dell’uomo prima che esso fosse “uomo”. La nostra specie ha fatto della locomozione bipede, del camminare e non solo, del correre e dello spostarsi, una sua caratteristica: una sua prerogativa. Già l’homo erectus fu un colonizzatore senza pari; fu il primo vero viaggiatore. Dall’Africa verso l’Asia e l’Europa forse in meno di un milione di anni e sfruttando già come vie di comunicazione le distese d’acqua attraverso la navigazione, la presenza di ponti terrestri ed altri collegamenti temporanei tra i continenti.
Vi è certamente una base biologica dietro le migrazioni di singoli individui ed intere popolazioni: la cerca del partner, di nuove fonti alimentari, ma anche la competizione fra specie così un’esagerata crescita e pressione demografica.
Ma vi sono fattori di carattere sociale, economico e psicologico dietro il continuato e frenetico spostarsi umano che lo differenziano e lo complicano rispetto a qualunque altra specie.
Parlare di Chatwin quando si parla del viaggio diventa quasi un cliché. Fu proprio lo scrittore a codificare l’impossibilità di rimanere fermi, “l’irrequietezza”, trovandovi una ragione insita nell’uomo, una pulsione “inseparabile dal sistema nervoso”.
Fuga, scoperta, rinascita, sono tutti temi del viaggio, che si può ripresentare in una miriade di forme diverse. Il movimento non è semplicemente qualcosa di anarchico, come un’opposizione tra nomadismo e mondo stanziale, tra mondo primitivo e civilizzato. No il viaggio può nascere anche dal desiderio di dare ordine. Nel momento in cui si parte, in cui si accende un movimento, si crea un tragitto, una strada, un obbiettivo, una metà, per quanto provvisoria.
Un aspetto di questo movimento ne è il pellegrinaggio. Non ne esce, non è una categoria a sé stante e non lo si può semplicemente chiuderlo all’interno del termine “religioso”.
Lo stesso pellegrino, etimologicamente, non è nient’altro che colui che “va attraverso i campi”. Per molti aspetti esso non differisce da un comune viaggiatore., ma ha un elemento che lo differenzia sostanzialmente: esso tende con straordinaria forza verso l’inatteso. Come un uomo che scruta ogni sasso attorno a sé pronto a riconoscervi un volto.
Per chiarire quest’immagine è necessario arrivare al concetto di “sacro”.
Otto Rudolf, teologo e storico delle religioni, riteneva che il sacro fosse una categoria della mente umana che permettesse di conoscere anche ciò che non altrimenti non era conoscibile attraverso la ragione: il sovrannaturale.
Gli studi sul sacro si sono sbizzarriti, incontrati, stralciati a vicenda; farne una anche solo una lista delle teoria e della letteratura che si è scritta sarebbe impraticabile in questa sede. Tuttavia è da rilevare che il concetto del sacro è legato inscindibilmente all’idea di una forza che viene percepita come straordinariamente potente e fuori dell’ordinario.
Recenti progressi nelle scienze cognitive, che vedono tra i loro maggiori fautori autori quali Pascal Boyer, Scott Atran, Alan Leslie, hanno però proposto una rilettura di tale concetto e delle modalità con cui l’uomo ne fa esperienza.
La mente umana sarebbe infatti composta di un insieme di dispositivi computazionali, chiamati moduli o meccanismi modulari, legati ognuno ad uno specifico problema cognitivo e comportamentale. Ogni dispositivo ha un suo campo di dominio all’interno del quale si attiva; vi è ad esempio un modulo atto al riconoscimento dei volti e delle espressioni facciali dei nostri simili, così come vi è un modulo atto ad analizzare esclusivamente stimoli di tipo acustico-linguistico. Non esisterebbe però nessun meccanismo atto a rilevare il “sacro” od altri fenomeni religiosi, bensì il sacro si configurerebbe come un errore proprio nell’attivazione di tali meccanismi.
Cosa accade di fatto quando si riconosce un volto in una nuvola od in un sasso?
I meccanismi modulari possono attivarsi anche al di fuori del loro campo di dominio. Tale evento, tale “errore”, produrrebbe un dato immediatamente rilevante, come un qualcosa di inatteso e straordinario. È allora che si avrebbe la nascita di un’idea religiosa.
Esse nascerebbero nel momento in cui si registra e si fa esperienza di un aspetto che viola e tradisce le nostre aspettative. Ognuno di noi ha infatti un’ampia serie di aspettative riguardanti ad esempio, il comportamento dei corpi nello spazio e il loro movimento, o circa alcuni processi biologici, quale la morte o la nascita. Le idee religiose sistematicamente tradirebbero tali aspettative.
Il sacro lo si potrebbe quindi leggere come una categoria di stimoli e percezioni direttamente influenzata dall’ambiente e dalle situazioni esterne, ambientali e sociali. È un esperienza che si connota come straordinaria, ma non come trascendente o distaccata dalla realtà. E semmai da essa che nasce ed lo fa in maniera inconsapevole, intuitiva e spontanea.
Una delle tradizionali letture delle credenze religiose le imputava all’azione e alla pressione sull’individuo e sulle popolazioni di tensioni, paure e preoccupazioni di carattere morale e metafisico, circa la morte, malattie, agenti negativi, e via dicendo.
I fatti religiosi sembrano invece scaturire da un serie di elementi che da un lato tradiscono le nostre aspettative sulla realtà, inattesi quindi, e che dall’altro sembrano invece confermarle. Come un mix di caratteri tipicamente umani e tipicamente non-umani. Alcuni di questi stimoli, scaturiti e percepiti direttamente dall’ambiente esterno, funzionerebbero da perno per la nascita di credenze religiose, poi arricchite di elementi ed assunzioni “intuitive”.
Può essere quindi, per tornare al nostro tema, il pellegrino un uomo che scruta ogni sasso attorno a sé pronto a riconoscervi un volto?
Forse.
Il pellegrinaggio è certo si configura come il mondo dell’inatteso. Per definizione è al di fuori dell’ordinario.
Testimonianze etnografiche ripetono con vigore che il pellegrinaggio era ancora nella prima metà del secolo scorso un momento in cui si valicavano, trasgredivano barriere e sbarramenti, cliché sociali, differenze di sesso ed età.
È un momento di liberazione, in cui era lecito fare ciò che altrimenti, nel quotidiano non lo era.
Il pellegrino è così forse nella condizione ideale per cogliere l’inatteso. Tende verso lo straordinario. È pronto ad ascoltare.
È un movimento spontaneo il suo, una migrazione libera, senza mediazioni, che permette di liberarsi dalle ansie, dai pensieri di ogni giorno e porsi in una condizione privilegiata per l’osservazione del suo tragitto e del suo cammino e del “sacro” che vi è e che lo circonda.
Parafrasando “l’ordinario” e “l’impossibile” di Lorenzo Carlo Magno, solo un’altra chiave di lettura del peregrinare.
Riferimenti bibliografici
Boyer Pascal, Religion Explained, Basic Books
Bruce Chatwin, Anatomia dell’irrequitezza, Adelphi
Filoramo Giovanni, Cos’è la religione: temi, metodi, problemi, Einaudi
Tobias Philip V., Il bipede barcollante: corpo, cervello evoluzione umana, Einaudi
NICCOLO' MAZZUCCO